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DOSSIER – Perchè Forza Italia dice NO al salario minimo orario per legge (Brunetta-Polverini)

 

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LEGGI IL DOSSIER

 

Perché Forza Italia dice NO

all’istituzione di un salario minimo orario per legge

L’ennesimo imbroglio del Movimento 5 Stelle

 

A partire da oggi, con il consueto ciclo di audizioni, la Commissione Lavoro del Senato della Repubblica, inizierà a discutere della possibile istituzione in Italia per legge del salario minimo (orario). Si tratta di una misura assai controversa, che rischia di toccare pesantemente il nostro sistema di relazioni industriali, che potrebbe non convenire nemmeno ai lavoratori, e che, soprattutto, in una fase di rallentamento (recessione) economica non appare una priorità per il Paese.

L’iniziativa condotta dal Movimento 5 Stelle riprende, per la verità, un principio già contenuto nella legge delega n.183/2015 (Jobs Act) del Governo Renzi che prevedeva l’introduzione di un salario minimo legale (sia pure in via sperimentale). La delega non è mai stata esercitata ma il PD ha riproposto il tema sia nella campagna elettorale sia depositando alcune proposte di legge in materia.

Il salario minimo (orario) è un livello legale a cui devono sottostare le retribuzioni e non ha nulla a che vedere con il reddito minimo o di cittadinanza. Esso è in vigore in 21 Paesi europei ed è stato introdotto recentemente nel Regno Unito ed in Germania. Il suo obiettivo è contrastare il fenomeno del lavoro povero (working poor), cioè al di sotto della soglia di povertà relativa, che si è esteso in maniera più significativa a seguito della Grande Recessione iniziata nel 2008-2009 e come conseguenza della rivoluzione tecnologica che colpisce il lavoro dipendente (ma non solo), soprattutto a bassa qualifica. Occorre altresì sottolineare che i Paesi che ne sono sprovvisti, come l’Italia, sono quelli caratterizzati da vasta e alta contrattazione collettiva (Austria, Svezia, Danimarca), poiché appare evidente dalle analisi comparative che esiste una correlazione inversa tra grado di copertura della contrattazione collettiva e salario minimo legale. Dai dati a disposizione l’Italia ha uno dei più elevati livelli di copertura, pari a circa l’85%.

Non si deve dimenticare, inoltre, che in Italia, sostanzialmente, il salario minimo esiste di fatto e deriva dall’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 36 della Costituzione che stabilisce che il lavoratore ha diritto ad una “retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del suo lavoro…”. I giudici chiamati più volte a definire questo termine hanno fatto sempre riferimento alla retribuzione di base (minimi tabellari) prevista dai contratti collettivi nazionali (categoria) sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, considerandola il livello minimo vincolante. Il sistema vigente quindi protegge la maggior parte dei lavoratori.

Fatte queste considerazioni preliminari, esistono sicuramente, ad oggi, alcuni problemi relativi al lavoro povero e alla esigibilità dei minimi salariali, a cui, però, rispondere con l’istituzione di un salario minimo per legge appare sbagliato e fuorviante. Si deve tenere presente, peraltro, che tutti gli studi oggi concordano nel ritenere che il salario minimo della contrattazione in Italia è uno dei più elevati in assoluto in Europa (secondo alcune ipotesi si potrebbe collocare a circa 1.250 euro mese), e dunque il salario minimo legale dovrà necessariamente collocarsi al di sotto di questo livello con possibili effetti distorsivi sull’intero sistema salariale.

Fermo restando che l’Italia sembra soffrire di una maggiore quota di lavoro povero rispetto agli altri Paesi europei, una prima criticità da affrontare attiene alla possibile platea, cioè in sostanza alla definizione di lavoro povero. Le differenti stime (fondate su diverse definizioni) portano questa platea da un minimo di 3 milioni di persone ad un massimo di 5,5 milioni di persone. Occorre, dunque, comprendere anzitutto a quale platea afferisce il salario minimo legale.

Una seconda evidente criticità attiene al livello al quale fissare questo salario minimo (orario), come detto in precedenza. Nell’unico tentativo finora abbozzato (la disciplina dei voucher) si era di fatto stabilito un livello pari a 7,5 euro, che erra ben superiore alla media europea. Se sarà fissato sopra gli 8 euro non farà altro che aumentare il costo del lavoro per le imprese e ridurre l’occupazione, specialmente al Sud. Se si situerà intorno ai 7 euro potrebbe essere più coerente a quello in vigore nei maggiori Paesi europei ma non per questo scevro da effetti negativi sul mercato del lavoro. In recenti documenti l’Ocse ha ipotizzato un livello possibile nella forchetta 6-7 euro. Inoltre, occorrerà anche verificare come differenziare lavoro dipendente e lavoro autonomo. Infine, dovrà essere fatta particolare attenzione a particolari categorie del mercato del lavoro, quali i giovani e gli apprendisti, rispetto ai quali potrebbero determinarsi specifici effetti di spiazzamento/esclusione o di impoverimento, proprio a causa dell’introduzione del salario minimo. Ma oggi vi è un nuovo elemento che permette di vedere il danno di lungo periodo del provvedimento che ha istituito il reddito di cittadinanza. Infatti, con un livello previsto di 780 euro e con la previsione di un rifiuto di un’offerta retribuita a meno di 858 euro al mese è stato sostanzialmente già fissato un paletto importante di riferimento per il salario e per i conseguenti comportamenti dell’individuo.

Una terza criticità, riconosciuta, attiene al fatto che in Italia esistono più di 850 contratti collettivi vigenti e persiste la mancanza di regole certe sulla rappresentanza ha favorito la moltiplicazione di contratti collettivi firmati da organizzazioni poco rappresentative (i cosiddetti “contratti pirata”). Infatti, non si è ancora potuta sancire l’esigibilità universale dei minimi salariali dei ccnl (cosiddetta erga omnes) poiché non si è risolto ancora il tema dell’art. 39 della Costituzione sulla rappresentanza.

Peraltro, giova ricordare che il sistema salariale italiano appare, ancora oggi, rigido, poco decentrato, poco attento alla produttività e questo è alla base dello scarso sviluppo dell’economia italiana, della perdita di competitività, e del divario crescente in termini di reddito ed occupazione del Mezzogiorno rispetto alle regioni del Nord. Questo è il sistema che ha prodotto la non-crescita dei salari in Italia negli ultimi anni e che contribuisce a tenere bassa la base occupazionale dell’Italia. Proprio su questo aspetto sono intervenute più volte le istituzioni internazionali (Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale e Commissione Europea) che hanno raccomandato un maggiore decentramento della contrattazione e una maggiore aderenza dei minimi rispetto alla produttività delle imprese e delle condizioni dei mercati del lavoro locali.

Non sappiamo dove la confusa proposta del salario minimo orario universale per legge del Movimento 5 Stelle ci porta ma sappiamo già da oggi quali effetti nefasti può determinare:

a. aumentare i costi delle imprese in maniera unilaterale;

b. aumentare la quota di lavoro nero, perché non si adatta alle diverse condizioni del mercato del lavoro;

c. comprimere i salari attuali poiché un livello errato (troppo alto) del salario minimo comprime i salari attuali e quindi complessivamente produce un effetto salari più bassi e non salari più alti (con rimbalzo negativo sulla domanda per consumi);

d. non garantire la copertura dei lavoratori autonomi o i collaboratori che non effettuano prestazioni ad orario (un’altra dimostrazione di come si intende rigido il mercato del lavoro);

e. come nel caso del reddito di cittadinanza, confondere politiche di contrasto alla povertà con politiche del lavoro determinando un effetto negativo sulle dinamiche del mercato del lavoro.

In crisi di consenso, abbandonato dalle categorie produttive, incapace di costruire un sistema di protezione per i nuovi lavoratori delle “piattaforme”, il Movimento 5 Stelle, dopo il confuso provvedimento sul reddito di cittadinanza, si inventa ora l’ennesimo imbroglio in materia di lavoro: il salario minimo orario. Ed imita così il Pd di Renzi che aveva provato questa strada nella scorsa campagna elettorale senza grande fortuna. Proponendo il salario minimo orario il Movimento 5 Stelle si conferma il partito dello statalismo e della rigidità legislativa, contro le imprese, contro la libera regolazione delle parti sociali, contro la contrattazione. Ancora una volta le proposte del Movimento 5 Stelle ci riportano ai più bui anni ’70, a quelli della decrescita infelice e della recessione, quelli in cui il Paese precipitò nel baratro economico e sociale.

Forza Italia è da sempre attenta alla questione salariale e al rafforzamento delle tutele reali e monetarie del lavoratore. La crescita salariale è per noi elemento indispensabile per lo sviluppo e la coesione sociale.La proposta del salario minimo ci appare l’ennesima risposta sbagliata ai problemi del Paese, pure se in presenza di un assetto contrattuale che non è ancora efficiente ed efficace per rispondere alle esigenze/difficoltà del Paese.

La questione salariale e il contrasto al lavoro povero non si regolano attraverso la fissazione per legge di salari minimi, che non tengano conto della negoziazione, delle condizioni di mercato del lavoro, delle situazioni di sviluppo locali, dei bisogni generazionali. La questione salariale è affidata anzitutto alla libera negoziazione delle parti e, solo in via residuale, a possibili e discreti interventi di sostegno del legislatore.

La nostra proposta, pertanto, si articola lungo le seguenti direttrici:

1. il sostegno allo spirito del Patto della Fabbrica delle parti sociali (auspicando che vi possano essere altre adesioni o declinazioni per settore produttivo), sui fondamentali criteri della contrattazione collettiva -tra cui considerare i livelli retributivi essenziali i minimi tabellari dei contratti “leader”, in modo da evitare forme di concorrenza sleale in danno dei lavoratori- anche prevedendo un intervento legislativo “leggero” di sostegno per l’erga omnes dei ccnl;

2. l’avvio di un più sostenuto processo di decentramento contrattuale, che tenga conto delle condizioni economiche e che sia più vicino ai luoghi di lavoro, laddove è più facile misurare la ricchezza e la produttività. Lo abbiamo fatto già nel 2008 con le agevolazioni fiscali e contributive per la contrattazione decentrata e nel 2011 con l’introduzione delle possibilità di deroga della contrattazione di prossimità, provvedimenti che hanno contribuito ad aumentare la quota di salario e a garantire i livelli occupazionali nella crisi. Lo continuiamo a sostenere oggi con un allargamento e rafforzamento di detti benefici per sostenere la contrattazione di prossimità;

3. la riduzione del cuneo fiscale sotto forma di “crediti d’imposta”, principalmente a favore dei lavoratori dipendenti a basso salario, per favorire l’attivazione degli individui e rendere convenienti anche i lavori a bassa remunerazione;

4. la previsione di misure per sostenere il reddito delle famiglie a rischio di povertà;

5. un rinnovato quadro di politiche attive del lavoro (ricollocazione e alternanza scuola -lavoro);

6. adeguati strumenti per il sostegno dei lavoratori indipendenti/autonomi.

On. Prof. Renato Brunetta

Responsabile Dipartimento Politica Economica di Forza Italia

On. Renata Polverini

Responsabile Dipartimento Lavoro di Forza Italia