Chi, a livello istituzionale, si occupa dei delicatissimi intrecci tra economia e lavoro non può ignorare, con preoccupazione, il tono sempre più acceso e autoreferenziale con cui, da anni, nel nostro Paese si affrontano due questioni cruciali per la crescita e la coesione sociale: la bassa produttività e i salari insufficienti.
Non compete al CNEL, quale “casa” dei corpi intermedi, limitarsi a ribadire a parole la centralità della contrattazione collettiva. Questo processo, richiamato dalla Carta costituzionale, ha il compito di governare le continue trasformazioni della economia e comporre, in modo condiviso e con soluzioni sostenibili, le ragioni della produttività e quelle della tutela della persona che lavora.
Il vero compito del CNEL è offrire un contributo concreto e tangibile per misurare il metabolismo reale dei mercati del lavoro. Ciò passa inevitabilmente attraverso il monitoraggio dei contratti collettivi di lavoro, veri indicatori della modernizzazione dei processi produttivi e del grado di giustizia sociale di una Repubblica fondata sul lavoro.
Un monitoraggio oggi reso complesso, se non impossibile, dall’eccessivo numero testi contrattuali siglati da soggetti di inadeguata rappresentanza e, però, puntualmente depositati presso l’Archivio nazionale dei contratti collettivi del CNEL, come se questo adempimento formale e burocratico fosse – di per sé – sufficiente a fornire una patente di rappresentatività e attestarne la qualità, in termini di congruità dei salari e delle tutele in essi contenuti. È invece evidente come solo una contrattazione genuina, condotta da attori dotati di un adeguato livello di rappresentatività, possa assumersi la responsabilità di impostare la questione salariale dal verso giusto: quello della produttività e della efficienza dei processi organizzativi del lavoro. Questo, senza l’insidia di fenomeni di concorrenza sleale giocati da attori minori della rappresentanza sulla pelle dei lavoratori.
Con grande lungimiranza la legge “Mattarella” del 1986 prevedeva, in una fase che ancora non conosceva le epocali trasformazioni che registriamo oggi, l’istituzione presso il CNEL dell’Archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro, con l’obiettivo dichiarato di contribuire alla qualità e trasparenza delle relazioni industriali e di lavoro. Un obiettivo possibile solo attraverso lo sforzo, su temi così divisivi e sensibili, di pervenire a letture univoche e condivise degli assetti normativi e retributivi espressi dalla contrattazione collettiva, rispetto alle dinamiche reali del mercato del lavoro. Questo è il valore aggiunto dell’Archivio e delle elaborazioni del CNEL che, richiamando testualmente la previsione di legge, sono messi a disposizione delle Camere, del Governo, delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, e degli enti e delle istituzioni interessate, quale “base comune di riferimento”, non solo in termini di studio e di conoscenza dei fenomeni, ma anche e soprattutto “a fini decisionali e operativi”.
Con la nuova consiliatura il CNEL si è fatto pienamente carico di questa responsabilità, sfidando pregiudizi radicati e luoghi comuni sulla sua utilità. L’Assemblea del CNEL, nella seduta del 24 ottobre 2024, ha varato alla unanimità una operazione di totale trasparenza e piena accessibilità all’Archivio dei contratti collettivi anche da parte dei diretti interessati – lavoratori e imprese – oltre che delle istituzioni pubbliche, degli operatori del mercato del lavoro e delle stazioni appaltanti chiamate a rispondere ai numerosi interrogativi pratici che solleva la riforma del Codice degli appalti pubblici rispetto ai contratti di lavoro applicabili.
L’altro ieri, la Commissione dell’informazione del CNEL ha dato effettivo corso a questa riorganizzazione dell’Archivio, in una forma opportunamente sperimentale, e con un parallelo investimento in tecnologie per rendere facilmente interrogabile un data-base che contiene oltre 150mila testi contrattuali tra testi vigenti e testi storici di cui è importante la conservazione.
Sarà così finalmente possibile conoscere e valutare i contratti collettivi, in ragione del loro effettivo radicamento nel sistema di relazioni industriali, ovvero della reale diffusione e presenza nel settore economico di riferimento.
Forse i mitici mille contratti collettivi nazionali di lavoro continueranno a restare in Archivio, citati ripetutamente da chi cerca di avvalorare, in modo del tutto errato, l’idea di un sistema di relazioni industriali allo sfascio e dell’inutilità dei corpi intermedi.
E, tuttavia, sarà ora facile per tutti prendere atto che sono poco meno di 250 i contratti nazionali effettivamente in uso. Contratti che, di massima, sono ancora quelli sottoscritti dagli attori storici e più rappresentativi del nostro sistema di relazioni industriali, e che nel loro insieme assicurano salari adeguati e soluzioni più avanzate della legge per la modernizzazione delle regole del lavoro.
Per contro saranno collocati in una apposita sezione dell’Archivio, con tutte le avvertenze del caso, gli oltre 100 contratti non rinnovati da più di dieci anni e, di fatto, inapplicati per quanto non formalmente denunciati, e i 600 contratti che, sebbene qualificati dai firmatari come nazionali, si applicano a meno di 500 lavoratori.
Si tratta di un percorso ancora sperimentale, che dovrà trovare riscontro e validazione strada facendo.
È, senza dubbio, un passo concreto verso la maggiore trasparenza e piena conoscibilità delle dinamiche contrattuali, che renderà più facile, per le istituzioni e i decisori politici, aggredire il nodo della bassa produttività e dei bassi salari.
Un intervento necessario per eliminare una deleteria contrattazione al ribasso – dumping contrattuale -, contrattazione occultata, come detto, dal deposito formale nell’Archivio del CNEL.
Un nuovo inizio, quindi, per sempre migliori relazioni industriali.
Ci guadagneremo tutti: lavoratori, imprese, i loro sindacati e, soprattutto, l’intero Paese.