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Guai ai vinti? Non più, cara Merkel (Il Foglio)

 

Germania europa

 

 

 

Per Il Foglio – di Renato Brunetta (DEFINITIVO) 05-11-2013

 

USA CONTRO GERMANIA (MA ANCHE UE CONTRO MERKEL)

 

La feroce e circostanziata critica del Tesoro americano nei confronti della politica economica tedesca è solo l’ultima manifestazione di un conflitto carsico che dura da tempo.

L’unica diversità sta nella pubblicità che l’Amministrazione americana ha voluto dare a questo permanente dissenso.

Segno di un’inquietudine crescente, nel momento in cui l’economia del più grande Paese occidentale fatica non poco a mantenere quel ruolo di “locomotiva” solitaria, in un mare di stagnazione alimentato – salvo qualche eccezione come quella del Giappone – dall’eccesso di rigore dei suoi partner politici e commerciali.

A questo si aggiunga la reazione alle accuse rivolte dalla stessa Angela Merkel nei confronti di Washington per il Datagate – il grande ascolto delle conversazioni telefoniche dei principali leader occidentali – ed il quadro risulta completo.

Sarebbe, tuttavia, sbagliato pensare alla mossa americana come una semplice reazione per far dimenticare la sua invasione di campo in un terreno così delicato quale quello delle intercettazioni delle comunicazioni.

In Europa cresce la spinta per ottenere un deprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro, al fine di agevolare le esportazioni e quindi dare un minimo di smalto ad una ripresa fin troppo asfittica.

Se questo dovesse avvenire, l’onere a carico degli Stati Uniti risulterebbe ancora maggiore. Meglio quindi giocare d’anticipo, rispolverando una polemica antica, anche se finora rimasta circoscritta, nel chiuso dei salotti buoni delle grandi Istituzioni internazionali.

Il primo clamoroso contrasto risale alla metà degli anni ’70. In un mondo sconvolto dalle due crisi petrolifere, gli Stati Uniti, durante le prime riunioni del Fondo monetario internazionale, chiesero con insistenza alle Autorità tedesche di reflazionare la loro economia, che fin da allora presentava consistenti avanzi della bilancia commerciale.

Non avendo ottenuto risposta, impostarono la politica del “benign neglect” (benevolo disinteressamento) rispetto al dollaro, che cominciò a perdere di valore, costringendo il marco a rivalutarsi.

Ancora più forte fu il contrasto a seguito della crisi del Sistema monetario europeo: crisi in larga misura determinata dalle modalità assunte dalla Germania per finanziare la riunificazione del Paese, a seguito della caduta del muro di Berlino.

Gli altri partner europei e gli stessi Stati Uniti chiedevano alla Bundesbank di ridurre i tassi di interesse che calamitavano flussi di capitali dal resto del mondo, determinando un’emorragia finanziaria dai Paesi più deboli, destinata a riflettersi in una caduta delle rispettive monete: la sterlina inglese e la lira italiana, innanzitutto.

Ma nemmeno questa volta vi fu una risposta positiva. E la crisi del ‘92/’93 continuò il suo corso, fino a determinare un più generale sconquasso. Oggi gli Stati Uniti, forse memori di quei precedenti, hanno alzato il tiro, in una clamorosa pubblica denuncia. Si può dar loro torto?

 

Ora il dibattito verte sulle politiche di austerity condotte fino ad oggi e accettate passivamente dai governi europei.

Come avevamo previsto, è ormai ampiamente dimostrato che le politiche adottate da un’Europa a trazione tedesca non solo hanno danneggiato la crescita europea ma hanno posto l’intero continente in conflitto con USA e Cina, impedendo un coordinamento internazionale delle politiche pro-crescita.

E questo gli Stati Uniti ce l’hanno detto in modo chiaro, attribuendo la responsabilità della debolezza dell’eurozona alle politiche economiche adottate dal governo tedesco ed inserendo per la prima volta la Germania nei cosiddetti “Key findings”: i paesi pericolosi.

Perché? Perché la Germania punta troppo sull’export e non sulla domanda interna, realizzando surplus della bilancia dei pagamenti superiori a qualsiasi altro Stato europeo, senza alcun meccanismo di redistribuzione. Tutto legato, secondo il “Report to Congress on International Economic and Exchange Rate Policies” redatto dal Tesoro americano, da un euro tedesco sottovalutato rispetto ai fondamentali dell’economia nazionale. Euro tedesco sottovalutato che ha consentito alla Germania di “drogare” la propria competitività sul mercato esterno. Tanto più che le asimmetrie della politica monetaria, nonostante gli sforzi del presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, le consentono di finanziare l’economia a tassi prossimi allo zero, mentre il resto del continente è alle prese con il fenomeno del credit crunch.

Questo problema può essere risolto pilotando una svalutazione dell’euro nei confronti delle altre monete? Più facile a dirsi che a realizzarsi. Che il valore della nostra moneta unica sia eccessivo è un dato incontrovertibile. Ma la sua forza deriva dai fondamentali dell’economia europea: vale a dire da un saldo positivo delle partite correnti dell’Eurozona, dovuto all’eccesso di austerità. Sennonché questo valore è il risultato di una somma algebrica – le medie di Trilussa – di situazioni diverse. Il deficit dei Paesi più deboli e il surplus dei Paesi più forti: Germania in testa. Si ritorna pertanto al problema delle asimmetrie. Con una Germania che è troppo forte rispetto ai suoi concorrenti europei, ma che utilizza le loro debolezze per “svalutare” relativamente la “sua moneta” e quindi rendere artificialmente più competitivo il suo potenziale produttivo e prosperare. Alla faccia di ogni principio minimo di solidarietà. “Guai ai vinti”: disse a suo tempo Brenno, condottiero gallo contro i romani. Da allora sono cambiate solo le insegne.

 

Ma il tesoro Usa non è l’unico a criticare la politica economica sangue, sudore e lacrime dettata da Angela Merkel a un’Europa troppo tedesca.

1)    Prima in ordine di tempo è la visita all’Accademia americana a Berlino del vice-direttore del Fondo Monetario Internazionale, David Lipton, che ha chiesto alla Germania di fissare un proprio target interno per la riduzione del saldo commerciale della bilancia dei pagamenti.

2)    Secondo indizio: la diffusione online di uno studio non ufficiale, ma firmato da uno tra i più autorevoli economisti della Commissione europea, Jan’t Veld, ove si sostiene che: “Un modo per i paesi in crisi per uscire dalla spirale dei debiti sarebbe stata la crescita esterna. Il riequilibrio dei loro conti correnti avrebbe potuto essere supportato da mutamenti simultanei nei paesi dell’area euro che, al contrario, registravano ampi avanzi delle partite correnti. Invece, la simmetria degli aggiustamenti fiscali in tutti i paesi dell’eurozona nello stesso momento ha ostacolato questo riequilibrio, con ricadute negative dei consolidamenti fiscali che hanno reso più duro il riequilibrio nella periferia e hanno ulteriormente esacerbato il temporaneo peggioramento del rapporto debito/Pil nei paesi vulnerabili”.

Eppure la burocrazia europea non è esente da colpe. I funzionari di Bruxelles sono responsabili di aver sbagliato completamente l’impostazione della sequenza delle azioni di politica economica da intraprendere. Prima di obbligare i governi a risistemare i bilanci attraverso politiche fiscali restrittive, avrebbero dovuto obbligare gli istituti di credito a migliorare la loro patrimonializzazione. Allora i capitali, soprattutto privati, erano ancora disponibili. Avremmo evitato che il fenomeno del credit crunch dilagasse nel vecchio Continente, e le banche avrebbero affrontato con meno pathos gli stress test di EBA e della Banca Centrale Europea. Ora, dopo l’ondata di austerity che gli stessi burocrati europei hanno imposto ai governi, i capitali sono finiti. Nessuno sa ancora spiegare dove potranno essere trovati. E il circolo vizioso si aggrava.

3)    Infine, il prossimo 15 novembre la Commissione europea segnalerà, come previsto dal Six Pack, le situazioni di squilibrio macroeconomico dei singoli Paesi. Come abbiamo più volte fatto notare, con riferimento al saldo della bilancia dei pagamenti i parametri sono “particolari”: le sanzioni scattano quando il deficit delle partite correnti supera, nella media degli ultimi 3 anni, il 4% del Pil, mentre in caso di surplus il paletto è fissato al 6%. Limite tutt’altro che stringente. L’anno scorso, guarda caso, il surplus medio della Germania nel triennio 2009-2011 era pari proprio a 5,9%. Quest’anno, a quanto pare, però, andrà male per i tedeschi, e la media del triennio 2010-2012 dovrebbe attestarsi intorno al 6,5%.

 

Si dice che 3 indizi facciano una prova. Qui ne abbiamo almeno 4. Il re è nudo!

 

 

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