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Intervista di Renato Brunetta a “Caffè Affari Live” (Class Cnbc”

 

Cattura

“Molto semplicemente i dati mensili sul mercato del lavoro vanno presi sempre con le molle, perché sono soggetti ovviamente a variazioni stagionali. Contano molto di più i dati tendenziali. Il dato tendenziale medio strutturale per l’Italia sul tasso di disoccupazione è un livello molto alto, tra i più alti in Europa, oltre il 12%. Che ci siano variazioni congiunturali di mese in mese questo è fisiologico. Nel caso specifico c’è stata, sì è vero, una diminuzione del tasso di disoccupazione, però mensilmente c’è stato anche un aumento degli inattivi, vale a dire degli scoraggiati, quindi molto probabilmente una parte, una gran parte dei disoccupati, hanno abbandonato il mercato del lavoro, non hanno più cercato lavoro perché pensano che non ci siano più possibilità di trovarlo.

Quindi l’effetto scoraggiamento è un effetto negativo per quanto riguarda una valutazione dell’economia che è legato alle prospettive di crescita. Se le prospettive di crescita non sono buone chi aveva fatto azioni per cercare lavoro smette di farle ed entra negli inattivi, cioè tra quelli che non cercano più. Al di là di queste cose che si insegnano ai primi anni dell’università, c’è da dire che il nostro mercato del lavoro continua a non funzionare: una disoccupazione troppo alta, un tasso di occupazione tra i più bassi d’Europa. A noi mancano tra i due e i tre milioni di posti di lavoro espliciti, c’è una gran componente di lavoro sommerso e lavoro nero soprattutto da parte immigrati.

Quindi non è con questi numeri congiunturali molto discutibili che si può cantar vittoria e dire che la situazione è risolta. Tutt’altro, anche perché, lo dico per l’ennesima volta, l’unico vero modo per creare posti di lavoro è il tasso di crescita, la crescita economica. O si cresce stabilmente almeno per un anno oltre il 2% o non c’è trippa per gatti, in altri termini, non si creano posti di lavoro, lo stesso dicasi per il Jobs Act.

Quello che sta succedendo con il Jobs Act è molto semplice: si passa dai contratti a termine ai contratti non a tempo indeterminato ma a tutele crescenti, per essere corretti. E le tutele crescenti vuol dire che sono contratti a tre anni senza le garanzie dello statuto dei lavoratori e cioè con la licenziabilità. Se non è un contratto a termine ci si va vicino, con maggiori tutele certamente del contratto a termine però non ancora il posto di lavoro stabile come lo abbiamo conosciuto, se mai fosse questo l’obiettivo.

Il fatto però è che questo passaggio da un contratto all’altro è fortemente incentivato, qualcuno potrebbe dire drogato, dalla decontribuzione, quindi la decontribuzione non serve per creare nuovi posti di lavoro ma serve per trasformare dei posti di lavoro, dei contratti dal tempo determinato alle tutele crescenti. Il risultato è che il totale dei posti di lavoro grosso modo rimane costante e questo totale è misurato dall’Istat, mentre c’è uno spostamento dai contratti a termine ai contratti a tutele crescenti, con oneri molto forti: 2-3-4 miliardi di euro di buco contributivo. Questo è bene o è male? Io direi che non è bene e non è male, nel senso che c’è un grande costo per una piccola stabilizzazione. Il problema è sempre quello: ma ci sono nuovi posti di lavoro? No! Il Jobs Act non ha creato nessun nuovo posto di lavoro”.