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L’inflazione non ci può aiutare, il governo punti alla crescita reale. Lettera di Renato Brunetta al “Sole 24 Ore”

 

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Caro direttore, è scritto in un passaggio dell’editoriale «I decimali non contano, proseguire sulle riforme sì», di Fabrizio Forquet di ieri: «L’Italia deve contare su una sostenuta crescita nominale per ridurre il rapporto debito/Pil e mantenere in piedi tutto l’assetto dei conti su cui è costruita la legge di stabilità». Ebbene, è in quell’aggettivo “nominale” che ci giochiamo tutto. Per due motivi: 1) perché sono i valori nominali che contano ai fini del rispetto dei parametri europei sui rapporti deficit/Pil e debito/Pil; 2) perché i valori nominali, inglobando l’inflazione, danno la vera idea dello sforzo richiesto, in questo caso al governo, per ridurre il debito pubblico e il deficit. Lo sforzo aumenta con l’inflazione bassa, mentre diminuisce con l’inflazione più alta. Da sempre una giusta dose di inflazione funge da taglia-debito e taglia-deficit. Diamo per buone, allora, seppur nutriamo qualche dubbio, le parole del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, per cui nel 2015 «forse chiudiamo a +0,8 per cento». E aggiungiamo a questo numero l’inflazione, per ottenere il dato nominale che, come abbiamo visto, è quello che serve per valutare la credibilità dei conti e del governo. L’inflazione prevista a pagina 23 della Nota di aggiornamento al Def- Quadro macroeconomico programmatico, quindi al lordo degli effetti delle mirabolanti riforme del governo Renzi (diamo per buone anche queste) – è dello 0,3%. Ragion per cui la crescita nominale è, quindi, prevista a +1,2% nel 2015. Peccato, però, che quest’anno l’inflazione sarà pari a zero o minore di zero. Ipotizzando -0,1% 00% di inflazione invece dello 0,3% previsto dal governo, quindi, la crescita nominale nel 2015 sarà +0,7% o +0,8%. Più bassa di mezzo punto percentuale rispetto alle previsioni del governo. Allo stesso modo, nel 2016 non si realizzerà l’1% di inflazione previsto dalla Nota di aggiornamento al Def, ma 0,2%-0,3%, e la crescita reale non sarà pari all’1,6% ma intorno all’1%, ben che vada. Ne deriva una crescita nominale del Pil nel 2016 dell’1,2%-1,3%: esattamente la metà del +2,6% previsto dal governo. Tutto ruota, dunque, intorno all’inflazione, la cui presenza o assenza finisce per portare a scostamenti rilevanti, fino al 50%, dai valori obiettivo su cui, ricordiamo, è basata l’intera costruzione dei conti pubblici e della legge di stabilità. Da qui l’importanza della politica monetaria della Bce. Riuscirà il Qe2 a risollevare il dato dell’inflazione? O gli effetti saranno quasi nulli, come è stato per il Qe1? È l’ultima cartuccia rimasta a Mario Draghi. A differenza delle altre principali banche centrali mondiali, la Bce ha come unico obiettivo la stabilità dei prezzi, vale a dire un livello di inflazione fisiologico, intorno al 2 per cento. Quando Mario Draghi ha assunto il suo incarico, a novembre 2011, l’inflazione nell’area euro era al 3 per cento. A novembre 2015 abbiamo registrato solo 0,1 per cento. Ne deriva che non possiamo puntare sulla Banca centrale europea per togliere le castagne dal fuoco ai governi, né sullo straordinario “allineamento astrale” Quantitative easing-euro debole-basso prezzo del petrolio. I governi dovranno, invece, puntare sempre di più sulla crescita reale, con conseguente miglioramento anche della crescita nominale. Per questo servono la buona politica economica e soprattutto le buone riforme. E non basta la loro evocazione retorica, ripetuta come un mantra: servono i fatti, che nel governo Renzi mancano del tutto. Basti vedere, fuori dalla propaganda, i dati sul mercato del lavoro dopo un anno di Jobs act.

LEGGI LA LETTERA DEL PRESIDENTE BRUNETTA