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R. BRUNETTA (Editoriale su ‘Milano Finanza’): “Col nuovo Esm in Europa torna lo scontro tra le formiche del Nord e le cicale del Sud”

 

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Nonostante i rumours provenienti dalle sale operative non siano del tutto tranquillizzanti, i mercati finanziari, in questo momento, non sembrano particolarmente nervosi. Contrariamente al mondo politico e istituzionale italiano, che sulle grandi riforme europee del meccanismo di stabilità (Mes) e dell’Unione bancaria europea, sta procedendo in ordine sparso e spesso conflittuale, senza accorgersi che, così facendo, ad uscirne indebolita è soltanto l’Italia nel suo insieme.

Il fatto che i mercati siano tranquilli nonostante i rumours può sembrare una contraddizione. In realtà è un atteggiamento del tutto razionale. Vediamo perché.
Nel trading, una delle prime regole che si insegna ai principianti è quella di “non andare mai contro la banca centrale”, adagio ripreso dall’originale motto che vige a Wall Street “never fight the FED”. In particolare, per gli investitori in titoli di Stato, vige una prassi secondo la quale è sempre profittevole accodarsi all’indirizzo di politica monetaria seguito da un istituto centrale. Questo è ancora più vero nel caso delle politiche di acquisto dei titoli pubblici, altrimenti note come “quantitative easing”. Con tali politiche, la banca centrale funge da “aspirapolvere” di titoli di Stato, in maniera da abbassarne il rendimento, grazie all’eccesso di domanda che essa provoca sul mercato. Grazie alla possibilità che essa ha di disporre di tutta la moneta che vuole, è evidente che la strategia funziona sempre. Come, infatti, ha funzionato anche di recente.
Ecco, allora, che nessun fondo di investimento o banca d’affari ha interesse ad andare “short” sui titoli di stato di un paese, compresi quelli più fragili, dal momento che, non appena i rendimenti tornassero a salire per effetto delle vendite, la banca centrale interverrebbe subito sul mercato per riabbassarli, comprando titoli. Allora, meglio comprare. Si può discutere a lungo se questa politica di alterazione di mercato (e dei suoi prezzi) da parte dell’autorità centrale sia giusta o meno. Fatto sta che così è.
Tuttavia, è chiaro che un programma di quantitative easing non può durare a lungo, perché le distorsioni che si verrebbero a creare sul mercato sarebbero eccessive, senza contare che anche i titoli in circolazione comincerebbero a scarseggiare. In teoria, è sufficiente che il tasso d’inflazione, unico obiettivo della Banca Centrale Europa, nell’Eurozona torni a crescere, per creare il presupposto a cessare il QE. In questo momento, il tasso d’inflazione annuale nell’eurozona è leggermente al di sotto dell’1,0%, quindi lontano dall’obiettivo statutario del 2,0%. Tuttavia, non in tutti i paesi l’inflazione è bassa. E qui risalta fuori una vecchia questione vecchia almeno quanto l’euro, ovvero quello dei differenziali inflazionistici dell’Eurozona. In Olanda, ad esempio, l’inflazione è cresciuta del +2,72% lo scorso mese di Ottobre. E’ chiaro che l’Olanda avrebbe bisogno di una politica monetaria più restrittiva, che infatti invoca. Così come molti paesi del Nord stanno cominciando a dimostrarsi sempre più insofferenti verso la politica dei tassi d’interesse negativi praticata da Francoforte, che rappresenta una tassa sul risparmio dei cittadini, sulla profittabilità delle banche e sui fondi pensione, i cui rendimenti sono azzerati. Lo stesso sistema bancario europeo sta coalizzandosi sempre di più contro la BCE e i suoi tassi negativi, che stanno provocando danni ai loro bilanci, per via della riduzione dei margini di intermediazione e del valore delle azioni. Pochi giorni fa, l’agenzia di rating Moody’s ha abbassato il rating di tutte le banche tedesche, giustificandolo con la riduzione della loro profittabilità, che è una diretta conseguenza della politica dei tassi negativi. Il mondo bancario di Berlino ha subito puntato il dito contro Francoforte, facendo pressione sul Governo affinché si faccia sentire.
Le politiche espansive sono viste dai paesi del Nord come un grosso regalo fatto dall’ex governatore Mario Draghi alle cicale del Sud, le quali, oltre a non mostrare alcuna intenzione di ridurre i propri debiti pubblici, sembrano non curarsi nemmeno degli effetti collaterali che nascono da questa forma nascosta di tassazione del risparmio europeo. Oltre che ad opporsi sistematicamente alle riforme del Meccanismo Europeo di Stabilità e dell’unione bancaria, due riforme da loro ritenute assolutamente necessarie per rafforzare l’Unione Europea. Le formiche del Nord si sentono quindi truffate.

Ecco perché, in virtù di queste considerazioni, è molto probabile che nel 2020 la BCE sarà costretta a cambiare rotta, sotto la nuova presidenza Lagarde, espressione, tra le altre cose, del potere franco-tedesco. Senza più lo sponsor rappresentato da Mario Draghi, ecco allora che il QE potrebbe essere pensionato prima del tempo, con grande gioia di tedeschi, olandesi e altri paesi “formica” e con grande preoccupazione degli stati “cicala”, tra i quali l’Italia. Preoccupazione del tutto giustificata, perché, a quel punto, gli investitori sì, torneranno a vendere titoli di Stato massivamente. Oltre a quelli, è quasi sicuro che al “pacchetto short” aggiungeranno anche i titoli azionari del settore bancario, come già successo a fine 2018, con i banchieri italiani che sono già preoccupati di vedere le loro banche dimezzare la loro capitalizzazione in Borsa. Per questi motivi, è necessario che, sin da subito, il Governo pensi a come fare per non essere etichettato come “cicala” dai trader, dimostrandosi volenteroso di migliorare le finanze pubbliche, adottando politiche economiche virtuose, volte alla riduzione della spesa pubblica inefficiente e improduttiva.