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R.BRUNETTA (Editoriale su ‘Milano Finanza’): “Ecco i quattro pilastri della speranza in Ue”

 

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La riunione dell’Eurogruppo della scorsa settimana si è conclusa con una bozza di accordo tra tutti i ministri delle finanze dell’Eurozona. Sono emersi quattro pilastri di condivisione, che potremmo definire, con un po’ di retorica ma anche di autoironia, “i quattro pilastri della speranza”: 1) l’utilizzo del costituendo SURE, fondo contro la disoccupazione dei lavoratori europei, per complessivi 100 miliardi, del quale però non è ancora chiara la natura, lo strumento che li erogherà ai singoli Stati, da chi sarà garantito, qual è il suo tiraggio e il suo costo; 2) l’utilizzo di fondi della Banca Europea per Investimenti, finalizzati alle imprese in difficoltà, soprattutto di liquidità sottoforma di garanzie. In questo caso l’emittente è chiaro, ma mancano i dettagli sull’ammontare complessivo dell’intervento, sulla natura (erogazioni in conto cassa o garanzie sui prestiti); 3) l’utilizzo del MES, con il suo toolkit fatto soprattutto di linee di credito, concesse apparentemente senza condizionalità. Anche in questo caso, non è però chiaro l’ammontare dell’intervento (si è detto fino a 2 punti di Pil), se il meccanismo potrà ricorrere a strumenti propri di indebitamento e per quale ammontare, oltre che le condizioni di restituzione dei prestiti eventualmente concessi e il tasso d’interesse garantito; 4) il Recovery Fund per il quale non è chiaro nulla e cioè chi sarà l’emittente, con quale strumento sarà erogato, con quali condizioni. L’unica cosa chiara è, si fa per dire, l’entità, pari a 500 miliardi, anche se non si capisce se in conto cassa o in garanzia. Quattro pilastri, a ben vedere, un po’ nebulosi o, peggio, traballanti.

A prescindere dalle dichiarazioni di intenti, tutte positive da parte degli Stati nel voler trovare una soluzione per contrastare gli effetti della crisi economica e finanziaria, possiamo definire quello della scorsa settimana un buon accordo? Come abbiamo già avuto modo di scrivere, il vero nodo ancora da sciogliere è che, ad oggi, l’Europa non abbia stanziato un solo euro. Tante promesse fatte, ma nulla sul piatto, neanche a livello metodologico, perché dove c’è la quantità (come ad esempio il SURE e Recovery Fund), mancano le modalità, gli strumenti e i costi; dove all’apparenza ci sono invece gli strumenti e gli emittenti, come nel caso della BEI e del MES, non ci sono le quantità, né le modalità. Insomma, un bel caos, o una bella cortina fumogena, che certamente non aiutano in termini di credibilità né nei confronti degli Stati, né nei confronti dei mercati.

La pensano così anche molti commentatori ed esperti, certamente non entusiasti del faticoso compromesso dell’Eurogruppo. Wolfgang Munchau (editorialista del Financial Times ed Eurointelligence) ha scritto, ad esempio, che “ciò che è stato concordato è ben al di sotto della rilevanza macroeconomica di quanto sarebbe stato necessario”. Proprio perché le cifre analizzate dagli osservatori appaiono difficilmente sommabili. Come si fa, infatti, a mettere insieme le risorse del SURE, di cui non conosciamo bene la natura, con quelle di BEI, MES e Recovery Fund via bilancio europeo? Sono risorse a fondo perduto o prestiti? E, nel secondo caso, erogati a quali costi e restituibili in quanti anni? Anche John Micklethwait e Adrian Wooldridge di Bloomberg hanno scritto che i governi europei hanno dimostrato di non saper proteggere i loro cittadini, come il loro ruolo imporrebbe. Mentre molto più ottimista appare Carlo Cottarelli, che sembra non preoccupato della natura dei fondi messi a disposizione. E speriamo abbia ragione. A noi rimangono tanti dubbi. Ma di una cosa siamo certi, come abbiamo già avuto modo di dire. Meglio un accordo che nessun accordo. Ma dal giorno dopo dello stesso, ci sarebbe stato l’obbligo di fare delle puntualizzazioni in grado di fugare ogni dubbio. La verità è che, mai come in questo caso, nel valutare l’esito dell’Eurogruppo, il condizionale sia d’obbligo. Perché, lo ripetiamo, per l’ennesima volta, nulla di certo è stato ancora deciso. E, soprattutto, stanziato. Eccezione fatta per i 750 miliardi di euro (e oltre) messi in campo dalla BCE con il suo programma di Quantitative Easing, che è destinato a durare fino alla fine dell’anno. Ma la BCE, come ben sappiamo, è altra cosa rispetto all’Unione.

Per i “quattro pilastri della speranza” la decisione, dunque, spetta ai capi di Stato e di Governo nel prossimo Consiglio Europeo del 23 Aprile. Già dai prossimi giorni si potrà capirà se le decisioni prese dall’Eurogruppo debbano essere considerate solo promesse, dichiarazioni di intenti, oppure processi credibili attraverso i quali arriveranno anche le risorse, quelle vere, in conto cassa, che è l’unica che conta. Il Consiglio Europeo, tra le altre cose, cadrà in una settimana del tutto particolare, perché è quella nella quale le agenzie di rating cominceranno ad esprimere i loro giudizi sui debiti sovrani e sugli istituti di credito dei Paesi membri. La prima sarà Standard & Poor’s, venerdì 24. Seguiranno Moody’s e Fitch. Considerando che il rapporto debito/Pil dell’Italia, ad esempio, salirà probabilmente attorno al 155-160% nel 2020, ai livelli ai quali ci fu la ristrutturazione del debito greco, tanto per intenderci, le possibilità di downgrade generalizzati per i Paesi europei più colpiti dalla crisi non sono affatto remote. Tutto dipenderà dalla valutazione delle agenzie sul fatto che il debito degli Stati sia sostenibile nel lungo periodo oppure no. E questa valutazione è funzione proprio delle risorse, della tempestività e delle modalità di finanziamento che l’Europa metterà in campo.

Per questo motivo è assolutamente necessario che i Capi di Stato e di Governo, supportati da tutte le tecnocrazie coinvolte (Commissione, BEI, MES) prendano nella prossima riunione decisioni importanti e univoche, senza ambiguità e mettano per iscritto precisamente da dove arriveranno le risorse finanziarie per finanziare la ripresa, le modalità, i loro costi e la tempistica, in altri termini se ci sarà una redistribuzione del merito di credito, con quel che ne consegue, da parte dei Paesi più forti a quelli più deboli, pena il rischio di un declassamento degli Stati finanziariamente più in difficoltà. Per non parlare del bilancio europeo 2021-2027 che, lo ricordiamo, incredibilmente non è ancora stato approvato, per mancanza di un accordo, come al solito, tra i Paesi del Nord e quelli del Sud. Potrebbe essere, infatti, proprio il bilancio europeo lo strumento giusto per fornire le risorse necessarie (500 miliardi?) agli Stati che ne hanno bisogno. Questo potrebbe essere fatto o aumentando la dimensione del bilancio, che nell’ultima bozza di proposta fatta ammonta a circa 1.100 miliardi di euro, portandola a un valore necessario e sufficiente per il bazooka dell’Unione; oppure riducendo il numero degli anni della sua validità, dagli attuali 7 a 5 e utilizzando lo spazio fiscale così disponibile per finanziare il fondo di ricostruzione; oppure ancora, pur dovendo mantenere il bilancio in pareggio, consentendo un indebitamento finalizzato sempre a finanziare in tempi certi il fondo di ricostruzione. Un’altra alternativa potrebbe essere quella di inglobare i fondi necessari per combattere questa crisi all’interno del pacchetto “Green New Deal” voluto fortemente dalla presidentessa della Commissione Europea Ursula Von der Leyen. Peccato che, anche le risorse per finanziare questo piano, non si sa da dove vengano fuori. Le soluzioni (finanziarie), ma sarebbe il caso di dire le fantasie finanziarie, non mancano, comprese quelle di un rafforzamento, come abbiamo visto, sia del MES che della BEI, le due istituzioni finanziarie già disponibili nel panorama comunitario. Quello che manca è la chiarezza e la volontà politica di prendere decisioni chiare, soprattutto da parte di Germania e Olanda, che hanno già fatto capire di non voler assolutamente sentir parlare di mutualizzazione dei debiti europei. Atteggiamento comprensibile, se riferito ai debiti passati. Non comprensibile ed eticamente e politicamente irresponsabile se correlato a quelli conseguenti la crisi. Non c’è più tempo da perdere. Le opinioni pubbliche nazionali, i mercati e le agenzie di rating non perdonano. Ne va dell’esistenza stessa dell’Unione nel suo complesso.