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R.BRUNETTA (Editoriale su ‘Huffington Post’): “DA UNA PARTE SOLA, DALLA PARTE DEI LAVORATORI”

 

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LA PIENA OCCUPAZIONE È POSSIBILE. CONTINUO A SOGNARE UN’UTOPIA A 50 ANNI DALLA NASCITA DELLO STATUTO DEI LAVORATORI

 

Giornata particolare oggi. Vengo alla Camera sapendo di dover fare un’intervista all’Huffington Post sullo Statuto dei Lavoratori, sui 50 anni da quel 20 maggio 1970; 50 anni anche della mia vita, poiché sono stato per 15 di quegli anni direttore della Fondazione dedicata a Giacomo Brodolini, padre dello Statuto dei Lavoratori.

Ho fatto e faccio l’economista del Lavoro, è stata la mia specializzazione universitaria e accademica. È stato il mio amore politico il mondo del lavoro, il sindacato, le relazioni industriali. È stata la mia vita.

Ho scritto tanti libri su questi temi, manuali, fino a saggi utopici come “La mia Utopia. La piena occupazione è possibile”, edito da Mondadori nel 2014.

Arrivo stamattina alla Camera e mi chiedono di commemorare in Aula un amico, un collega, Massimo D’Antona, ucciso proprio il 20 maggio 1999 dalle brigate rosse e questo mi emoziona, dandomi però la chiave amara per questa mia testimonianza.

“Da una parte sola, dalla parte dei lavoratori”. Questo avrebbe detto oggi Giacomo Brodolini. Oggi, che sono passati 50 anni dall’approvazione in Parlamento del suo Statuto. E per ricordare l’amico Massimo D’Antona, gli regalo proprio questa frase-vita di Brodolini: “da una parte sola, dalla parte dei lavoratori”.

Questo è uno strano Paese perché chi è stato, almeno lungo un certo periodo storico (gli anni ’80 e ’90), dalla parte dei lavoratori, con la sua militanza, i suoi studi, il suo lavoro, le sue consulenze, e ha rischiato e dato la sua vita per difendere questa scelta, questo impegno che in un Paese normale sarebbe stato cosa normale.

Ricordo oggi Massimo, perché è stato ucciso il 20 maggio del 1999, ma ricordo anche Ezio Tarantelli, ucciso nel 1985, dopo l’approvazione in Parlamento della ‘scala mobile’, e ricordo Marco Biagi, ucciso nel 2002. Erano amici e colleghi e facevano il mio stesso lavoro. Io in quegli stessi anni sono stato più fortunato di loro perché avevo la scorta. Quindi ringrazio Marco, ringrazio Ezio, ringrazio Massimo, per aver tragicamente testimoniato con la loro vita un impegno, e lo ripeto ancora, “da una parte sola, della parte dei lavoratori”. E penso che questo debba essere anche il leit motiv per pensare il futuro. Ma come pensare ai lavoratori, alla loro vita, alla loro felicità, ricordando lo Statuto dei Lavoratori che arrivò mirabilmente – e lo dico pensando alla storia – solo alla fine di un processo di rivoluzioni industriali e di lotte tra capitale e lavoro, lotte che hanno segnato gli ultimi due secoli?

Per onorare lo Statuto dei Lavoratori e Giacomo Brodolini e i tanti che hanno dato la loro vita per testimoniare “da una parte sola, della parte dei lavoratori”, occorre riflettere sul futuro, anche sulla base di quello che ci è accaduto negli ultimi tre mesi di pandemia, 100 giorni che hanno cambiato il nostro modo di vivere e lavorare (smart working, una parola per tutte). Forse per sempre.

E qui l’altra emozione che mi pervade, e cioè un lavoro prima teorico e poi divulgativo che ho realizzato nel 2014: il mio libro sull’utopia possibile.

“Call me Ishmael” è l’incipit di Moby Dick, l’esemplificazione di un vero e proprio modello economico (e di un programma politico): sul Pequod – la baleniera comandata dal capitano Achab – vige infatti un sistema che non discrimina, perché ciò che conta è il merito individuale, in grado di assegnare a ciascun lavoratore-capitalista una “pertinenza”, un salario, basato sulle competenze individuali e sui profitti, cosicché a tutti convenga che il capitale frutti il più possibile. E c’è una parte destinata anche alle vedove e agli orfani.

Ma cosa c’entra Ismaele, l’io narrante del romanzo? A lui viene assegnata la trecentesima “pertinenza”. Il suo compagno, Queequeg, che dà prova di essere un abile ramponiere, centrando alla perfezione una distante macchia di catrame, viene ingaggiato invece con la novantesima “pertinenza”, vale a dire a condizioni molto più vantaggiose. Un sistema che quindi non discrimina perché l’animista Queequeg viene assunto dai quaccheri Peleg e Bildad a condizioni migliori del cristiano Ismaele. Ciò che conta è il merito individuale perché a ciascun lavoratore-capitalista conviene che il capitale frutti il più possibile.

La ragione è presto detta. Io credo che noi dovremmo tornare, alla luce dei cambiamenti tecnologici e dei cambiamenti epocali che abbiamo di fronte, a Moby Dick, vale a dire passare dalla società dei salariati alla società della partecipazione, per avere piena occupazione.

Nella società capitalistica (quella che fa da sfondo allo “Statuto”) vige, infatti, un equilibrio infelice. Il salario è certo, l’occupazione incerta. Il salario è fisso, sia che l’economia tiri, sia che vada male. Se va bene, cresce l’occupazione, ma la busta paga resta quella. Se va giù l’economia, aumenta la disoccupazione. Non si tagliano i salari, ma si licenzia. Si accetta come normale la disoccupazione tipica delle crisi, che provoca invece costi umani spaventosi e costi del welfare insostenibili. Ribaltiamo la prospettiva. Invece di tener fisso il salario di chi ha lavoro, e mobile il rapporto tra occupati e disoccupati, invertiamo le priorità. Puntiamo alla piena occupazione come bene pubblico inderogabile. E lasciamo che la remunerazione del lavoro sia flessibile. Il salario è un prodotto ottocentesco e novecentesco delle rivoluzioni industriali. Ma ha fatto il suo tempo. Cominciamo a difendere i lavoratori facendoli valere come capitale patrimoniale. Che partecipano a pieno titolo ai successi e agli insuccessi della loro azienda. Che può fallire, ovvio, ma da altre parti si generano nuove risposte ai bisogni e dunque nuovo lavoro.

Io credo che questa possa essere la risposta anche a quello che andava dicendo Marco Biagi, ovvero di passare dallo Statuto dei Lavoratori allo Statuto dei Lavori. Sì, giusto. Ma quello non può essere l’approdo, dei tanti lavoratori da regolare e da garantire. Occorre un cambio di paradigma: passare dalla società dei salariati e del lavoro dipendente alla società della partecipazione. Ma questo passaggio implica la rinuncia alle garanzie tradizionali sul posto di lavoro, e alle tutele del welfare? Assolutamente no. La garanzia migliore per l’occupazione, nella mia utopia, è l’occupazione stessa. La garanzia non è il welfare passivo, che è un incentivo a licenziare e getta nel limbo sociale e nell’infelicità dell’inazione milioni di giovani e di vecchi-giovani. Se si distingue nella remunerazione del lavoro una parte minore, più o meno fissa, da una variabile, ancorata all’andamento dell’azienda, tenendo come bene pubblico la piena occupazione, l’elasticità del rapporto occupazione-disoccupazione sarebbe sostituita da quella più o meno ampia tra remunerazione fissa e una variabile a seconda del profitto.

Io cito Martin Weitzman. Ci saranno sempre imprese che muoiono e altre che nascono. Il mercato resta, con la sua scopa (o piede invisibile, per far fuori chi non è efficiente…). La piena occupazione è da intendere non come ingessatura delle singole aziende costrette ad un numero predeterminato di lavoratori, ma nel sistema nel suo complesso.

Nella visione tradizionale, la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese non deve essere legata a un “capitalismo sociale di mercato”, superato dalla globalizzazione. Perché credo, al contrario, che la buona globalizzazione economica sia da intendere nel senso della “rete”, dell’interconnessione universale; se non fosse una formula stucchevole, parlerei di smart-capitalismo. Questo tipo di economia non tollera rigidità, esige partecipazione, flessibilità e intelligenza, perché esige e determina sentimento di appartenenza, pathos, democrazia. Lo stesso spirito che animava il Pequod, il veliero del capitano Achab. Lo riproduco nella copertina del mio libro. È una nave di quaccheri. I membri dell’equipaggio sono pagati in quote diverse sulla base della loro produttività, di quello che sanno fare. C’è partecipazione, senso di squadra, epica, merito. Tutti al lavoro, niente scontro tra capitale e lavoro. Un altro mondo.

Ecco, ci sono tutte le basi per passare dalla società dei salariati alla società della partecipazione. Credo che questa sia la risposta ai tempi di crisi che viviamo. Se cominciassimo tutti a riflettere, io partendo dai miei ultimi 50 anni di vita, di studi, di lavoro e di attività politica, forse questo sarebbe il modo migliore per onorare Giacomo Brodolini, lo Statuto dei Lavoratori e le tante persone che, per questa meravigliosa conquista, hanno dato la loro vita.