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R.BRUNETTA (Editoriale su ‘Il Riformista’): “Vi spiego perché ci conviene prendere quei soldi europei”

 

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MOMENTO HAMILTON E RIFORME: LA GRANDE OCCASIONE

 

E’ arrivata finalmente l’ora della verità. Ed è un’ora duplice, per l’Europa ma anche per l’Italia. Questa settimana è, infatti, decisiva per capire finalmente i dettagli del piano d’intervento fondato sui quattro pilastri finanziari (MES, BEI, SURE e Recovery Initiative) che l’Unione Europea intende mettere in campo per far fronte all’emergenza economica nella quale si trova l’Europa per effetto della pandemia. Domani 27 Maggio sarà il giorno più atteso, perché si dovrebbe passare finalmente dalle dichiarazioni di intenti e dalle rassicurazioni politiche alla cosa più importante, ovvero ai dettagli e tecnicalità finanziari. Le risposte relative alla dotazione complessiva dei singoli strumenti e del piano complessivo nel suo insieme, alla natura (grants o loans) delle risorse erogate, ai tempi, ai costi dei finanziamenti, all’entità del ricorso al mercato, alle condizionalità richieste e al legame tra piano di intervento e risorse provenienti dal bilancio europeo (risorse proprie o non), dicevamo le risposte dovranno essere quindi finalmente messe sul tavolo del Parlamento.

La presidentessa della Commissione Europea Ursula Von der Leyen presenterà, infatti, domani il piano per la ripresa della Commissione, comprendente il tanto atteso Recovery Fund, il fondo che dovrebbe aiutare i paesi più colpiti dalla crisi economica a riprendersi nei prossimi anni. La Von der Leyen si presenterà davanti al Parlamento Europeo per descrivere i dettagli del piano, in un contesto politicamente molto complicato. Una settimana fa, infatti, Germania e Francia hanno formalizzato una proposta comune, definita da alcuni come una vera e propria svolta per l’Europa (il cosiddetto “momento Hamilton”, dal nome di Alexander Hamilton, primo segretario al Tesoro degli Stati Uniti), consistente nella creazione di un fondo di debito comune per raccogliere sui mercati finanziari 500 miliardi di euro da destinare poi ai Paesi e ai settori più colpiti attraverso dei grants (trasferimenti) e non dei loans (prestiti), debito da rimborsare successivamente o attraverso risorse proprie dal bilancio europeo (prelievi riscossi sulle importazioni di prodotti agricoli, dazi doganali e proventi dell’IVA), o attraverso i contributi nazionali (cosiddetta “quarta risorsa”), calcolati in percentuale sul Prodotto Nazionale Lordo (PNL).

Questa proposta è stata però accolta in maniera molto ostile dai paesi autodefinitisi “frugali” (Austria, Danimarca, Olanda e Svezia), che sabato scorso hanno presentato una controproposta informale (“non paper”) nella quale hanno scritto di non voler accettare in alcun modo una mutualizzazione del debito, indicando invece, come soluzione, l’erogazione di prestiti (loans), tutti erogati sotto condizioni molto stringenti, ai Paesi più colpiti. Le trattative non saranno quindi facili.

La Commissione Europea presenterà, inoltre, anche una nuova proposta di Quadro Finanziario Pluriennale (cioè il bilancio 2021-2027 dell’Unione Europea), sul quale a Febbraio gli Stati membri si erano scontrati, non trovando un accordo per una manciata di miliardi, per un bilancio, lo ricordiamo, che vale soltanto l’1,07% del Pil europeo. Secondo indiscrezioni raccolte a Bruxelles, sull’entità del bilancio, la Commissione sarebbe orientata a confermarne le dimensioni, mantenendo anche gli sconti a bilancio per i paesi frugali, con l’intento di spingerli ad accettare il Recovery Fund basato su grants anziché su loans. Un compromesso possibile. A proposito delle cifre del piano d’intervento complessivo, Ursula Von der Leyen aveva parlato di uno stanziamento pari a 1.000 miliardi di euro, comprensivo di tutti e quattro gli strumenti finanziari (MES, BEI, SURE e Recovery Fund), con in più un possibile strumento europeo per rafforzare la capitalizzazione delle imprese in difficoltà.

Il secondo momento della verità riguarderà il nostro Paese: cosa ci può guadagnare l’Italia da questo piano? Nell’ipotesi in cui si servisse di tutti e quattro i pilastri finanziari, e che l’ammontare complessivo sia di 1.000 miliardi di euro (o poco più) del quale si vocifera, le risorse destinate al nostro paese ammonterebbero, facendo quattro conti sul retro di una busta, a quasi 200 miliardi di euro potenziali. Dal MES arriverebbero infatti 37 miliardi (2,0% del Pil italiano, percentuale massima stabilita per ogni paese), dal Recovery Fund circa 100 miliardi sui 500 miliardi complessivi (anche se la cifra per l’Italia ci sembra eccessivamente ottimistica), circa 40 miliardi dalla BEI in termini di garanzie e 20 miliardi dal SURE sui 100 miliardi complessivi. Di questi, sempre che il Governo accetti di utilizzarli tutti, le risorse del MES e del SURE arriverebbero sotto forma di prestiti a tassi d’interesse molto vicini allo zero, quelli del Recovery Fund sottoforma di grants, in tutto o in parte (ma il condizionale è ancora d’obbligo). Da definire ancora meglio l’intervento della BEI, anche se, conoscendo la natura dello strumento, dovrebbe trattarsi o di garanzie o di prestiti.

E qui viene il passaggio più complicato, ma anche potenzialmente più positivo.

In cambio di cosa l’Italia otterrebbe queste risorse? Nonostante il Governo spinga per avere trasferimenti a fondo perduto, è ormai chiaro che tutte le risorse che arriveranno al nostro Paese saranno soggette a condizionalità, secondo il paradigma sacrosanto, secondo noi, “soldi in cambio di riforme”. E’ del tutto impossibile, infatti, pensare che i paesi del Nord Europa diano risorse senza pretendere nulla in cambio. E, diciamoci la verità, non sarebbe nemmeno giusto. La condizionalità è un principio da sempre usato sia nella finanza pubblica che in quella privata. Chi presta i soldi, vuole giustamente sapere le finalità per le quali questi sono spesi e vuole monitorarne il corretto utilizzo. Ma come abbiamo già avuto modo di dire, esiste però condizionalità e condizionalità. Un conto è la condizionalità delle politiche di rigore “lacrime, sudore e sangue” come applicate, ad esempio, nel caso greco. Altra cosa è chiedere ex ante una lista di riforme che l’Italia comunque avrebbe dovuto già fare, nel suo stesso interesse, o identificare una lista di interventi da finanziare attraversi i finanziamenti concessi. Diciamocelo chiaramente di nuovo. L’Italia non ha certo mostrato, anche nella gestione dei fondi europei, una grande capacità né organizzativa, né di pianificazione, né soprattutto di burocrazia efficiente. Concordare un piano d’intervento con le istituzioni europee per l’Italia potrebbe rivelarsi addirittura un vantaggio, avvalendosi delle best practices sviluppate già in altri paesi che si sono rivelate fondamentali per la crescita e lo sviluppo economico. Dipende da noi, se vedere questa condizionalità come una opportunità di collaborazione per fare tutto quanto non è mai stato fatto fino ad ora, oppure vederla come una riduzione di sovranità da parte dell’Europa.

Lo Stato italiano è in evidente difficoltà finanziaria e non dispone, lo sappiamo tutti, di liquidità sufficiente per pagare la cassa integrazione a tutti i lavoratori rimasti a casa o per risarcire la perdita di fatturato delle imprese che hanno chiuso. I costi della crisi sono troppo alti perché l’Italia ce la possa fare da sola. Per questo motivo, rifiutare oggi le risorse europee per mere ragioni ideologiche, in nome del sovranismo e del nazionalismo più intransigente, significa portare il Paese sulla strada del baratro. E’ l’ora della verità, per noi e per l’Europa. L’Unione deve dimostrare di fare sul serio. Noi di accettare la sfida delle riforme. O si vince insieme, o è davvero finita.