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R.BRUNETTA (Editoriale su ‘Il Riformista’): “L’Europa solidale (da ieri) esiste davvero”

 

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L’Europa è fatta così. Caotica, burocratica, spesso inutilmente schematica; fatta di tanti luoghi di potere e di tante istituzioni parallele. Però, quando decide di partire e si dà un calendario, parte e decide.

In questa congiuntura del tutto particolare e tragica, l’Europa sta dando prova di solidarietà. Chiamiamola ‘hamiltoniana’, chiamiamola da ‘economia sociale di mercato’. Chiamiamola come vogliamo, comunque di solidarietà si tratta. E, ancora, l’Europa quando parte è capace di invenzione, innovazione: sa rompere con gli schemi del passato. Giurava Angela Merkel “mai gli Eurobond finché vivo”. Invece, comunque li si voglia chiamare, la Commissione ha deciso di indebitarsi e l’Europa ha scelto di giocare sul terreno del rafforzamento del mercato unico e del ‘level playing field’, per evitare che dopo l’emergenza i Paesi più forti diventino ancora più forti a danno dei più deboli. L’Europa è fatta così. Dà il meglio di sé sotto stress, quando c’è da decidere se implodere o rilanciare. Ha rilanciato.

Margareth Thatcher ricordava che nessuno si sarebbe ricordato del buon samaritano, solo perché era buono, ma perché aveva anche i soldi. Per l’Europa, quella di ieri era la giornata nella quale doveva dimostrare che la solidarietà e la capacità di intervento necessarie per fronteggiare una crisi economica e finanziaria senza precedenti non erano solo dichiarazioni di facciata ma che, invece, erano decisioni basate su concrete e reali risorse finanziarie. Queste risorse, da ieri lo possiamo dire con certezza, ci sono. E, finalmente, possiamo anche riassumerle in una cifra: 2.400 miliardi di euro.

A questo, infatti, ammonta il maxi piano di ricostruzione europea, presentato ieri dalla presidentessa della Commissione Europea Ursula von der Leyen davanti al Parlamento Ue. Una cifra più alta delle attese, per un piano che ha come suo strumento principale un Recovery Fund, denominato Next Generation UE, del valore di 750 miliardi di euro, dei quali ben 172 miliardi destinati all’Italia, la quota più alta tra quelle di tutti i Paesi membri, dei quali 81,8 miliardi sottoforma di stanziamenti (grants) e i restanti 90,9 miliardi sottoforma di prestiti (loans).

Come sempre il diavolo sta nei dettagli e aspettiamo la difficile negoziazione tra Paesi. Ma la sostanza dovrebbe essere questa. Una cifra considerevole, mai vista prima. Il Fondo, da oggi denominato Next Generation UE, si aggiungerà ai 1.100 miliardi di bilancio pluriennale della UE – per il quale, sempre la Commissione Europea dovrebbe chiedere a tutti i Paesi membri un aumento di contribuzioni, per le quali molto probabilmente, ma non si è capito ancora bene, verranno utilizzate web tax, carbon tax e plastic tax. A queste risorse ordinarie e straordinarie, si aggiungeranno gli ulteriori 540 miliardi già stanziati per gli altri tre pilastri finanziari: Mes in versione “light” (per un ammontare pari al 2,0% del Pil dell’Eurozona, da erogare sottoforma di prestiti condizionati), fondo SURE (100 miliardi, da erogarsi sottoforma di prestiti) e fondi BEI (per le restanti risorse, da erogarsi sottoforma di prestiti o di garanzie).

In questo modo, la finanza europea aumenterà di dimensione e permetterà di creare un fondo ponte, operativo dal 2021, necessario per far partire gli stanziamenti per i Paesi più in difficoltà. Per finanziare il Next Generation UE Fund, la Commissione emetterà titoli di debito sui mercati, titoli che a questo punto possiamo chiamare tranquillamente eurobond (con buona pace di Angela Merkel), per 750 miliardi di euro, sfruttando il suo elevatissimo rating e il suo forte appeal nei confronti dei mercati. 500 miliardi saranno poi erogati ai Paesi sottoforma di grants, e i restanti 250 miliardi sottoforma di loans. Le risorse raccolte dovranno poi essere rimborsate attraverso il bilancio UE, non prima del 2028 e non dopo il 2058.

Questo è quindi il piano finanziario, finalmente svelato, dell’Europa. La solidarietà europea è tornata ed ha dimostrato di avere le idee chiare, almeno nelle intenzioni della Commissione. I fondi, nelle dichiarazioni della stessa Von der Leyen, serviranno per guardare al futuro (non per risolvere i problemi del passato), per irrobustire il mercato interno e per rafforzare il ruolo geopolitico dell’Europa.

Fin qui le tante luci e le poche ombre dall’Unione. E adesso tocca a noi: l’Italia è altrettanto pronta per decidere da subito se dire di sì alle risorse europee, divisa com’è al suo interno tra europeisti di Governo e di opposizione, che spingono per sfruttare fino in fondo le risorse del piano; e sovranisti di Governo e di opposizione, che spingono invece per rifiutarle, in nome del grido, alquanto stupido, “ce la faremo da soli”? E, nel caso il nostro Paese decidesse di essere della partita, dopo infinite mediazioni e funambolismi del mago Conte, saprebbe l’Italia come spendere questi 172 miliardi di euro? Oppure si comporterebbe come con i fondi europei, che mai è riuscita ad utilizzare bene e nei tempi giusti?

Su queste amare domande purtroppo non possiamo che manifestare grande pessimismo, anche perché il secondo Governo Conte, ad aprile, non ha neanche presentato il Piano Nazionale delle Riforme che avrebbe dovuto accompagnare il Documento di Economia e Finanza. PNR nel quale avrebbe dovuto delineare tutta la strategia di interventi riformatori relativi al triennio 2021-2023, interventi dettagliati per ambito e con i relativi costi.

Certo l’Europa aveva consentito di rinviare la presentazione del PNR di qualche settimana, ma era L’Italia che ne aveva bisogno per la sua credibilità verso l’Europa, i mercati e, soprattutto, gli italiani.

Ecco, questa è la sfida, per noi drammatica. Occorre definire dunque con urgenza e in maniera condivisa, maggioranza e opposizione, in Parlamento e nel Paese, cosa vogliamo fare del nostro futuro.

Le cose da fare le conosciamo, anche troppo, ma è bene ricordarle ancora una volta: occorre sbloccare i 100 miliardi di euro già stanziati per opere pubbliche e già iscritti a bilancio. Occorre liquidare subito 50 miliardi di euro per ripagare i debiti che lo Stato e le pubbliche amministrazioni hanno ancora nei confronti delle imprese. È opportuno realizzare politiche per l’occupazione mirate, in un contesto di mercato del lavoro profondamente messo in discussione dalla crisi dallo smart working. A questo riguardo occorre passare dal “bricolage” dell’emergenza nell’uso del lavoro a distanza a nuovi modelli organizzativi nella PA e nelle imprese che diano una scossa alla stagnante produttività italiana: a questo dovrebbero servire i fondi SURE.

Occorre finanziare imprese innovative ad alto contenuto tecnologico e di ricerca; in particolare nei distretti biomedicali: a questo dovrebbero servire i fondi BEI. Occorre cambiare la filosofia del welfare per gli anziani (soprattutto nelle RSA): da profit-oriented a benessere-oriented, da residenze per anziani ad abitazioni per anziani; occorre ripensare a tutta la nostra sanità, con relativa riqualificazione del personale medico e paramedico, investendo in competenze sulla ricerca e sulla gestione delle emergenze, a livello di territorio e di strutture ospedaliere: a questo dovrebbero servire i fondi MES.

Occorre costruire grandi reti infrastrutturali europee, materiali (trasporti su ferro e su gomma); e immateriali (reti di telecomunicazioni anche satellitari, considerata l’impennata di domanda di larga banda): a questo devono servire i fondi del New Generation UE.

Siamo noi in grado di fare tutto questo, nei tempi europei che sono i tempi richiesti dal grande cambiamento in atto? Pensando al nostro recente passato ci viene da dire di no. Guardando alla tragedia che ci ha investiti, dobbiamo imporci di dire di sì, e il benchmark non può che essere ancora l’Europa. L’Europa della giustizia, l’Europa della sanità, l’Europa della ricerca e dell’istruzione, l’Europa delle infrastrutture, l’Europa del mercato del lavoro. Uno sforzo enorme. Una grandissima sfida. Ma questa è anche una grandissima occasione.