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R.BRUNETTA (Editoriale su ‘Il Riformista’): “È facile riformare il fisco se sai come si fa…”

 

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PRIMA PUNTATA

 

Ebbene sì, confesso il mio peccato. Ho nutrito, fin dal suo primo apparire, una certa simpatia per il ministro dell’economia e delle finanze Roberto Gualtieri, ministro del governo giallorosso, o delle quattro sinistre. Gentile, corretto, competente, gran lavoratore, disponibile al dialogo, con le parole giuste e i giusti tecnicismi. Gli ho dato credito. Abbiamo anche dialogato, con penso reciproca soddisfazione. Il buon Gualtieri si è trovato ad affrontare, oltre che alla sua rissosa maggioranza di Governo indecisa a tutto, anche la tragedia della pandemia. Quindi tutte le attenuanti del caso (quelle politiche un po’ meno di quelle più oggettive del Covid) nei confronti del suo agire. Per cui ho avuto indulgenza sul suo primo sottovalutare l’entità dello scostamento di bilancio che si sarebbe dovuto realizzare per far fronte alla pandemia. Il ministro Gualtieri parlava inizialmente di 3,6 miliardi, poi dopo una settimana 7, alla fine 25 che sono diventati 20. Poco male, anche se da più parti, soprattutto dall’opposizione, si auspicava un approccio più risoluto e coraggioso, fino ad arrivare, già nel mese di marzo, a prefigurare un discostamento da 100 miliardi di euro, da realizzarsi tutto e subito attraverso il meccanismo del “front loading”. Non ci ha ascoltato. E questo si è rivelato poi un problema. Ma la faccio breve sul passato. Purtroppo, il Gualtieri europeo, tecnocrate dal buon linguaggio economico, si è poi perso nella Contenomics o nella Casalinomics, vale a dire nell’usare sempre più la strategia dei bonus, dei fuochi di paglia, dell’inseguire la realtà senza essere in grado di mettere mai in campo vere riforme. Il tutto finalizzato all’acquisizione del consenso. E qui mi fermo. Solo bonus, solo cassa integrazione, solo moratorie. Niente di più. Con tutto bloccato poi dagli infiniti decreti attuativi che sono lì, ancora tutti da scrivere.

 

Ha suscitato in me grande interesse, invece, il Gualtieri che annunciava una riforma fiscale, prima di Ferragosto. Mi sono detto: finalmente, il buon Gualtieri si mette a fare le cose serie. Grande è stata la delusione, invece, quando ho cominciato a vedere che sotto il vestito della parola riforma (epocale) non c’era nulla, o peggio, solo tanta confusione e demagogia. Ma andiamo con ordine.

 

Era il 9 agosto, quando il ministro dell’economia Roberto Gualtieri annunciava la riforma radicale dell’Irpef, presentata da lui stesso come una rivoluzione epocale.

 

L’intenzione di Gualtieri, e se abbiamo capito bene del Partito Democratico, è quella di prendere a modello il complesso meccanismo tedesco, a progressività continua delle aliquote, calcolato attraverso una formula matematica piuttosto complicata.

 

Nello specifico, il sistema tedesco prevede una no tax area, ovvero una soglia sotto la quale non si paga alcuna imposta, fissata a 9.000 euro; passata questa e fino a 54.949 euro l’aliquota sale proporzionalmente all’aumentare del reddito, partendo dal 14% e arrivando al 42%; dai 54.950 euro ai 260.532 euro l’aliquota è poi fissata al 42%, mentre oltre quella soglia sale al 45%.

 

Per non farci mancare nulla, il presidente della commissione finanze della Camera Marattin (Italia Viva) ha proposto, invece, una riforma dell’Irpef da realizzarsi attraverso una decisa riduzione del numero di detrazioni e deduzioni fiscali, ovvero le famose tax expenditures, oltre ad un innalzamento a 8.000 euro della cosiddetta no tax area.

 

Ciascuna di queste proposte, oltre che testimoniare quanto lontani siano Governo e partiti di maggioranza dal poter concretamente elaborare una visione politica condivisa, figuriamoci dall’attuarla, denotano una totale assenza di competenza tecnica in una materia complessa e delicata come quella fiscale: si parla tanto per parlare, insomma, senza alcuna reale cognizione di causa e senza alcuno studio tecnico sottostante.

 

Per quanto riguarda le parole del Ministro dell’Economia, basta conoscere la storia recente del fisco italiano per sapere che, presentare una riduzione del carico fiscale sui redditi da lavoro per un costo di circa 10 miliardi di euro complessivi alla stregua di una rivoluzione epocale, significa esporsi al ridicolo o, nella migliore delle ipotesi, a una accusa di plagio, posto che, per platea dei destinatari ed ammontare complessivo, questo intervento assomiglia più a una seconda edizione del “bonus 80 euro” di renziana memoria, piuttosto che a una vera e propria rivoluzione.

 

Per quanto riguarda la “suggestione tedesca” del PD, pare evidente che la sinistra ultra-progressivista si fa irretire dall’apparenza proprio perché non conosce la sostanza tecnica delle questioni.

Se raffrontiamo la curva della progessività disegnata per un tipico lavoratore dipendente tedesco dal modello ad “aliquota progressiva continua”, con la curva della progressività disegnata per un tipico lavoratore italiano dal modello ad “aliquote per scaglioni e detrazioni decrescenti per tipologia di reddito più bonus 80 euro”, quello che emerge è che la curva italiana è più progressiva di quella tedesca; non viceversa, come evidentemente pensano gli incompetenti amici del PD, che ad ogni piè sospinto invocano anzi ancora più progressività per l’Italia.

In Italia, infatti, i lavoratori dipendenti hanno un’IRPEF sostanziale pari a zero fino a 11.635 euro e, fino a 15.000 euro, il prelievo rimane sensibilmente inferiore a quello applicato sui lavoratori tedeschi.

Tra 15.000 euro e 25.000 euro le due curve di progressività si intersecano, per poi tornare a divaricarsi in modo significativo tra 25.000 euro e 65.000 euro, ma questa volta a vantaggio dei lavoratori tedeschi.

Sopra 65.000 euro e fino a circa 500.000 euro le due curve tornano nuovamente ad avvicinarsi e a coincidere.

In altre parole, il sistema italiano è più progressivo di quello tedesco nel passaggio dai redditi bassi (che in Italia pagano meno che in Germania) a quelli medi (che in Italia pagano più che in Germania), mentre la progressività dei due sistemi tende a coincidere per i redditi alti.

Si potrebbe dunque dire che, così come non è l’abito che fa il monaco, non è tanto l’aliquota continua che fa la progressività, quanto l’andamento dell’aliquota media (non quella marginale) all’aumentare del reddito.

Quanto precede conferma per altro una cosa che, a differenza del PD, noi diciamo da tempo: la pressione fiscale va abbassata per i redditi medi che pagano davvero troppo, non per i redditi bassi che attualmente pagano giustamente nulla o pochissimo.

 

Per quanto riguarda la proposta del presidente della commissione finanze della Camera Marattin (Italia Viva) di una decisa riduzione del numero di detrazioni e deduzioni fiscali, ovvero le famose tax expenditures, l’idea è senz’altro corretta e condivisibile, fermo restando che negli ultimi anni tutti i governi hanno tentato di tagliarle ma nessuno ci è mai riuscito.

Ciò detto, chiunque non parla per sentito dire, perché conosce realmente il dettaglio delle numerose detrazioni e deduzioni fiscali, nonché il relativo peso in termini di milioni o miliardi recuperabili mediante la riduzione o soppressione di ciascuna, sa perfettamente che quelle che valgono di più sono anche quelle che è impossibile toccare perché rappresentano una componente “strutturale” del sistema di prelievo, a partire dalle riduzioni per lavoratori dipendenti e per famigliari a carico, e proseguendo con quelle per spese mediche, interessi passivi su mutui prima casa, rate di passate spese per interventi edilizi.

Si tratta quindi di una proposta, quella di Marattin, con la quale si può ottenere una giusta semplificazione, ma certamente non può essere questa l’architrave finanziario per la copertura di un effettivo abbassamento della pressione fiscale.

 

In questo panorama di proposte per una riforma fiscale delle imposte sui redditi, non va certamente dimenticata la proposta di “semplificazione” lanciata dal direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, con riguardo alle modalità di liquidazione e pagamento delle imposte da parte delle partite IVA, prontamente sposata e rilanciata tanto dal Governo quanto dai partiti di maggioranza: il passaggio dall’attuale sistema di liquidazione su base annua, con due acconti per l’anno in corso da calcolare sulla base dell’imposta dovuta per l’anno precedente oppure su base previsionale, ad un sistema di liquidazione mensile o trimestrale.

Come è stato spiegato in modo semplice e chiaro dall’ex viceministro dell’economia, Enrico Zanetti, ed anche dal presidente nazionale dei commercialisti, Massimo Miani, questa innovazione, presentata come un vantaggio per le partite IVA, è in realtà una “polpetta avvelenata” con cui il Governo punta ad anticipare a partire da febbraio 2021 l’incasso delle imposte relative ai redditi in formazione per il medesimo anno, laddove invece con il sistema attuale farebbe incassare all’Erario gran parte di quelle imposte solo a giugno 2022, ossia in sede di saldo per l’anno 2021, posto che gli acconti 2021, calcolati su base storica sui dati 2020, vero e proprio annus horribilis per le partite IVA, sarebbero evidentemente molto bassi.

Inoltre, è del tutto evidente che se questa “mensilizzazione” dei versamenti arrivasse senza porre a monte una radicale semplificazione delle modalità di calcolo del reddito imponibile, si otterrebbe una moltiplicazione per 12 volte dell’attuale conteggio annuale, con quel che ne consegue in termini di aggravi amministrativi.

 

Per effetto di tutte queste considerazioni, le diverse proposte di riforma fiscale presentate dal Governo e dai partiti di maggioranza, anche laddove riuscissero a pervenire a una improbabile sintesi politica, non forniscono le giuste risposte alle esigenze di creazione di un fisco efficiente ed equo.