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R.BRUNETTA (Editoriale su ‘Huffington Post’): “Facciamo come la Germania? Mettiamo denaro fresco per ricapitalizzare le nostre aziende. Si può fare in legge di bilancio. Scriviamola assieme, maggioranza e opposizione”

 

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Abbiamo detto tante volte che il rischio economico e sociale concreto e più grave della crisi pandemica che stiamo attraversando è che questa, iniziata come simmetrica (ha colpito tutti allo stesso modo e più o meno negli stessi tempi), finisca con il diventare asimmetrica (con pochi vincitori, e tanti vinti in mezzo a tantissime macerie politiche). In altre parole, il rischio è quello che i paesi UE, colpiti inizialmente allo stesso modo dalla pandemia, finiscano con l’uscire in maniera migliore o peggiore dalla stessa, a seconda della loro forza economica, finanziaria e politica. In particolare, esiste un paese che, più di altri, risulterà vincitore da questo processo poco solidale e molto competitivo che si sta inevitabilmente sviluppando in Europa. Si tratta, neanche c’è bisogno di dirlo, della Germania. Intendiamoci subito, a scanso di ogni equivoco. Il governo di Berlino, guidato dalla straordinaria cancelliera Merkel, non ha una particolare “colpa” del modo da cui da questa crisi si uscirà, a meno che non si voglia considerare una “colpa” quella di aver sempre operato con lungimiranza di vedute, con una strategia politica efficiente ed efficace, economica e finanziaria orientata al lungo, e non al breve periodo, e nell’essere stata capace di aver piazzato tutti i suoi migliori funzionari nei gangli del potere politico e burocratico europeo: Bruxelles, Strasburgo, Francoforte, Lussemburgo. A questo riguardo, semmai, verrebbe da chiedersi come mai l’Italia non abbia fatto la stessa cosa, ma abbia invece ragionato sempre con spirito provinciale, attenta solo ai propri interessi di bottega e alle guerre di consenso interno, senza aver mai voluto investire capitale istituzionale per rafforzarsi in Europa. Nessuno, d’altronde, ha mai impedito ai nostri governi di mandare i propri funzionari migliori nel Vecchio Continente a difendere i propri interessi e discutere e proporre le conseguenti regole di funzionamento della UE, a meno di non voler invocare la solita teoria complottista del “tutti ce l’hanno con noi”, che comincia ormai a diventare un disco rotto, non certo edificante per la nostra reputazione.

Prendiamo allora il caso delle misure decise dalla UE per finanziare la “ripresa dalla crisi”, misure che possiamo riassumere in due strumenti principali: il Recovery Fund, che stanzia risorse (sussidi a fondo perduto e prestiti) soprattutto per i paesi più deboli, e il Temporary Framework, che modifica temporaneamente la normativa sugli aiuti di stato alle imprese (in teoria rivolto a tutti, in realtà ai Paesi più forti). Ecco, su questo secondo strumento – poco conosciuto e non certamente sotto l’attenzione dei parlamenti e della pubblica opinione – l’amara constatazione da fare è che la citata Germania ha sfruttato tutta la sua capacità di lobbying per scrivere una nuova versione del Temporary Framework (il cosiddetto “quarto emendamento”), in maniera da incanalare la “sua enorme liquidità pubblica” (accumulata nei quasi 20 anni di euro) nel capitale delle imprese tedesche, in maniera da far agire lo Stato come un “silent partner” degli imprenditori, lasciando al resto dell’Europa le tanto discusse risorse del Recovery Fund, o almeno la promessa di queste risorse, visto che il Next Generation UE Fund non è ancora stato approvato, e il recente rallentamento osservato tra Parlamento Europeo e Consiglio lascia presagire che occorrerà ancora parecchio tempo prima che questo si concretizzi. Tanto che, ormai, si dà per scontato che i primi grants del NGUE Fund non arriveranno prima della fine della prossima estate, mentre, solo a titolo di paragone, grazie alla sospensione della normativa sugli aiuti di Stato, il governo di Berlino ha già convogliato la cifra monstre di 100 miliardi di euro per la ricapitalizzazione (con risorse proprie) delle imprese tedesche. E tutti zitti. Una ricapitalizzazione così massiva non si era mai vista nella storia della Unione Europea, e la distorsione è che gli altri stati membri, gioco forza, non dispongono certo della liquidità sufficiente per effettuare una manovra del genere. Ricordiamo, inoltre, che per effetto del quarto emendamento” al Temporary Framework, approvato lo scorso 13 ottobre, gli Stati membri potranno erogare aiuti alle aziende per coprire fino al 90 per cento dei loro costi fissi sostenuti che, per effetto del Covid, abbiano subito una contrazione del fatturato di almeno il 30 per cento. Tra questi costi sono inclusi, ad esempio, gli affitti, le bollette energetiche, le spese assicurative, i costi di consulenza, le imposte sulla proprietà, etc.

D’altronde, il processo di costruzione dell’euro come valuta comune è esso stesso un macroscopico esempio di asimmetria (più o meno intenzionale) tra le varie economie dell’Europa, forse il migliore esempio”, dal momento che le conseguenti contrapposizioni e dicotomie tra varie economie dei paesi UE si sprecano. Dalla differenziazione tra “paesi cicala” e “paesi frugali”, tra paesi “virtuosi” e “spendaccioni”, tra paesi in surplus e paesi in deficit, le definizioni stigmatizzanti fanno parte ormai del paesaggio valoriale dell’Unione. L’euro, lo sappiamo tutti, è nato dalla messa in comune di economie e finanze pubbliche dalle performance completamente diverse: i paesi del Nord più forti in termini di crescita e con i conti in ordine; i Paesi del Sud, strutturalmente più fragili, in difficoltà economica e con i loro alti deficit e debiti pubblici. Una eterogeneità che ha permesso ai primi di accumulare un enorme e crescente vantaggio competitivo proprio grazie alla moneta unica, vantaggio che si è tradotto nel tempo in un enorme e plurimiliardario surplus commerciale con il resto d’Europa e del mondo, e che, in barba alle regole del trattato di Maastricht (anch’esse frutto di una asimmetria congenita”), ha finito per riempire i forzieri delle ricche economie “protestanti”, forzieri che ora possono essere utilizzati per impiegare risorse a sostegno dell’economia e delle aziende nazionali in crisi. Una strategia di policy anticiclica, che sicuramente premia la lungimiranza di vedute di chi queste politiche ha realizzato (mettere il fieno in cascina nei “good times” e spenderlo nei “bad times”), ma che ci pare insopportabilmente egoistico e miope se pensiamo che, comunque, è sempre pericolosamente mancato l’ultimo miglio del processo, ovvero la creazione di un vero federalismo fiscale europeo, a carattere strutturalmente ridistributivo. Con il conseguente pericolo della dissoluzione dell’Unione.

La vera asimmetria dell’eurozona è, infatti, quella di avere adottato una valuta comune, l’euro, in assenza di una unione politica basata su un sistema federale che prevedesse dei trasferimenti automatici dai paesi più ricchi a quelli più poveri, da quelli che hanno un surplus commerciale a quelli in deficit, come avviene già proprio in Germania e negli Stati Uniti, o in Svizzera. In assenza di un sistema federale, a molti Paesi è stato consentito di accumulare, come già detto, negli anni enormi “surplus”, che però non sono mai stati rimessi in circolo nell’economia né domestica, né nell’Unione. Le regole previste dal trattato di Maastricht prevedono infatti limiti ai deficit (il famigerato 3%) e debiti pubblici degli Stati (l’inutile 60%), ma non ai loro surplus commerciali, creando così un ulteriore asimmetria regolatoria. La Commissione ha tentato di porre una pezza a questa asimmetria, emanando raccomandazioni ai paesi in surplus (oltre il 6%), soprattutto Germania e Olanda, suggerendo loro di spendere parte di quel surplus in domanda ed investimenti interni, con effetti di “spill over” sulle altre economie europee. Ma in assenza di un sistema sanzionatorio efficace, quelle raccomandazioni non sono mai state ascoltate (né dai Paesi interessati, né tantomeno dai mercati a cui il surplus piace). In ogni caso, a livello di gerarchia delle fonti comunitarie, una Raccomandazione non ha certo il peso di una norma scritta in un trattato. Insomma i paesi in “surplus” non hanno mai reflazionato, mentre i paesi in deficit di bilancio sono stati sottoposti non solo al pubblico ludibrio, ma anche all’attenzione niente affatto benevola proprio dei “mercati”.

In realtà per una comunità come quella europea, a moneta unica, sono peggio i surplus strutturali di alcuni Paesi, che i deficit di bilancio di altri. I surplus (soprattutto non reinvestiti) fanno male a tutti (in termini di minore crescita), mentre i deficit indeboliscono quasi unicamente chi li ha.

In molti si sono chiesti cosa mai la Germania avesse intenzione di fare con tutta quella ricchezza commerciale e finanziaria accumulata negli anni e mai consumata, nel rispetto dell’etica protestante che predica l’accumulo di ricchezza solo per il gusto di metterla da parte, senza sentirne il bisogno di ostentarla o, quantomeno, di usarla. Con questa crisi abbiamo avuto però una risposta a questa domanda. Viene da dire che forse, facendo due conti, all’Italia sarebbe convenuto, e ancora conviene, fare come ha fatto la Germania, ovvero pensare a ricapitalizzare le imprese nazionali, investire in progetti di lungo periodo e smetterla con l’atteggiamento italico del puntare tutto sulla spesa corrente, i bonus, i crediti di imposta, le tax expenditures, che producono solo burocrazia e distorsioni del mercato, senza mai porre l’Italia nella posizione di poter competere seriamente in una economia sempre più globale. Purtroppo siamo sempre (fino a quando?) il Paese di “sole, pizza e amore…”.

A guardar bene sarebbe ancora possibile mettere in atto una siffatta strategia, già nell’attuale – e ancora tutta da riscrivere – legge di bilancio. Basterebbe fare ricorso a tutte le risorse UE disponibili da subito: SURE, BEI, MES (per un totale di quasi 100 miliardi), per interventi sugli ammortizzatori (SURE), sulle spese sanitarie dirette e indirette (MES), per lanciare un grande piano di garanzie per le imprese (BEI). Nel contempo utilizzare le risorse interne così liberate per “fare come la Germania”, per la ricapitalizzazione di tutte le imprese, sfruttando il “quarto emendamento” al Temporary Framework. In più basterebbe “chiudere” una volta per tutte l’annosa vicenda dei debiti delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle imprese italiane (40/50/60 miliardi, si è perso persino il conto). Per fare tutto questo basterebbe riscrivere, tutti insieme, maggioranza e opposizione, l’obsoleta legge di bilancio, resa carta straccia dalla seconda ondata della pandemia; votare un “quarto scostamento” per il 2020 di almeno 20 miliardi, e definire e votare entro l’anno un secondo scostamento per almeno altri 30 per il 2021.

Ci sarebbe così abbastanza “fieno in cascina” per guardare e far guardare agli italiani con qualche credibile ottimismo al futuro (altro che micragnosi e cervellotici ristori); almeno fino all’estate, quando arriveranno gli anticipi delle risorse del Recovery (almeno 15 miliardi).

Ecco, la cabina di regia potrebbe essere proprio questo: scrivere insieme la nuova legge di bilancio, metterci un doppio relatore (uno di maggioranza e uno di opposizione), e votarla tutti insieme, scostamenti compresi. È troppo per Conte e la sua maggioranza? Non lo sappiamo. Certamente è la cosa giusta per l’Italia.