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R.BRUNETTA (Editoriale su ‘Huffington Post’): “Sul Mes ci stiamo facendo del male. Basta con la propaganda. Siamo nell’Europa del momento Merkel. La riforma anfibia del Mes è l’unica strada”

 

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Sulla riforma del trattato MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) si sono dette e scritte tante cose, forse troppe. Eppure, in mezzo alla enorme propaganda che si è fatta sul tema, alcuni fatti appaiono incontrovertibili.

La prima versione del MES era di natura intergovernativa, costruita frettolosamente, sotto l’assillo della crisi dei debiti sovrani, ed obbediva alla miopia e all’egoismo degli Stati nazione che, pur temendo il contagio da default, non volevano costituire nuove istituzioni comunitarie a difesa dell’euro. Era il MES del momento “protestante” e “calvinista” dell’Europa, quello del sangue, sudore e lacrime, dei compiti a casa, del ‘debito’ sinonimo di ‘colpa’ alla tedesca, delle condizionalità punitive. Era anche il MES di un’Europa asimmetrica, in cui alcuni paesi relativamente piccoli all’interno dell’Eurozona (Grecia, Portogallo, Irlanda) avevano accumulato debiti pubblici non sostenibili, mentre la media dell’Eurozona navigava ben al di sotto del 100% del rapporto debito/PIL. Quell’Europa, e la sua incapacità di gestire la crisi bancaria e il suo legame con i debiti pubblici nazionali, aveva poi consentito alla crisi stessa di allargarsi a Paesi con fondamentali rischiosi, ma non critici, come la Spagna e l’Italia, quest’ultima salvata grazie al ‘whatever it takes’ di Mario Draghi, dall’imbroglio dello spread.

Quell’Europa ora non c’è più, anche se pure la seconda versione del MES si presenta intergovernativa, per mancanza di coraggio e di visione.

Tre anni di discussioni tra i 19 dell’Eurogruppo, per l’Italia almeno tre governi con tre maggioranze diverse, con tre ministri, tutti degni di rispetto (Padoan, Tria e Gualtieri) e il risultato è certamente migliore della versione originaria del 2012, tuttora in vigore.

Nel frattempo, il mondo è cambiato per la crisi pandemica e con un grande shock culturale e politico, l’Europa si sta trasformando da intergovernativa a comunitaria, federale, anche se questa mutazione sembra più il prodotto della paura (pandemica) che di un maturo convincimento.

Proprio per questo anche la seconda versione del MES è purtroppo intergovernativa, ma l’introduzione del common backstop (una rete di sicurezza comune) sul sistema bancario, e la linea di credito (pandemica) temporanea, già operante da maggio scorso fuori dalla riforma, finiscono per portare il processo di mutualizzazione delle risorse europee dei 19 progressivamente e inevitabilmente verso una nuova dimensione federale, anche se non ancora comunitaria.

Il tutto in presenza di una nuova Europa, quella del momento Merkel, della ‘Next Generation’, della mutualizzazione una tantum del debito, di certo parziale, ma che rappresenta pur sempre una novità assoluta, quasi eversiva rispetto ai vecchi assetti ideologici e alle vecchie credenze.

Per tale motivo, questa riforma anfibia del MES sembra l’unica strada da intraprendere, perché, pur figlia del passato, anticipa una istituzione di cui c’è bisogno, e che potenzialmente può diventare comunitaria e federale.

Per questo motivo, non si riesce a comprendere affatto (anzi si capisce benissimo) la posizione di chi dice no a questo nuovo MES, evidentemente ritenendo che sia meglio restare con il vecchio, più egoistico, meno solidale, meno comunitario, meno federale, e quindi meno europeo.

Andando nel merito, l’anticipo del meccanismo di ‘common backstop’ come rafforzamento del Fondo di Risoluzione Unico bancario dell’Eurozona, sotto forma di linea di credito Mes, e l’anticipo del ‘risk assessment’, entrambi al 2022, inseriti nella tanto attesa e discussa riforma del Trattato Mes, sono senza dubbio una ottima notizia. Lo strumento del ‘backstop’ serve proprio ad evitare ciò che era accaduto tra il 2010 ed il 2012, quando l’incapacità europea di gestire la crisi di un (piccolo) Stato sovrano, la Grecia, ha rischiato attraverso il contagio del sistema bancario, di far deragliare la seconda più importante valuta del mondo, con conseguenze facilmente immaginabili.

L’anticipo dello strumento è oltremodo importante per un sistema bancario alle prese con quella che sarà una difficile uscita dalla crisi da pandemia, crisi che sta riempiendo nuovamente i bilanci delle banche dell’Eurozona di crediti inesigibili (NPLs), nel momento esatto in cui questi si stavano faticosamente riducendo. Crediti NPL che, secondo le ultime stime della Bce, ammonterebbero alla cifra monstre di 1.500 miliardi di euro. Un quantitativo di sofferenze, latamente intese, che rappresenta una buona approssimazione della dimensione della crisi sofferta dalle imprese europee, che potrebbe presto portare a nuovi fallimenti sistemici negli istituti di credito. L’Italia, da questo punto di vista, è lo Stato dell’Eurozona, insieme a Grecia e Portogallo, ad avere la percentuale di Npl più elevata, quindi tra i paesi più esposti a shock negativi, e dunque tra quelli che potrebbero maggiormente guadagnare dall’implicita stabilità garantita dal meccanismo di ‘backstop’ anticipato.

Come sostenuto correttamente dal collega Gaetano Quagliariello, la pandemia, e soprattutto le sue conseguenze economiche, hanno cambiato le carte in tavola in Europa. Anche grazie agli “scostamenti di bilancio” che in diversi casi sono stati votati dal Parlamento all’unanimità, il nostro debito sovrano è salito al 160 per cento del Pil. Il Paese, anche per questo, si presenta molto più fragile ed esposto agli shock dei mercati finanziari, pur in mezzo agli squilibri comuni a tutta l’Eurozona. Come ben sappiamo l’Europa ha reagito in pochi mesi istituendo il Recovery Fund, una svolta epocale, mutualizzando una parte del debito sovrano (solo quello prodotto dalla pandemia) e affidando alla Banca Centrale Europea il ruolo di compratore di ultima istanza.

A riprova di tutto questo, in Italia nessuno sostiene che delle risorse del Recovery Fund si possa o si debba fare a meno. Purtroppo, l’accesso ai fondi NGUE, per effetto del veto posto dai sovranisti ungheresi e polacchi, rischia di essere rinviato ancora a lungo, lasciando il 2021 completamente scoperto dalla protezione finanziaria (famiglie, imprese, Stati), di cui avrebbe assolutamente bisogno.

Per questo motivo, proprio per non lasciare il problematico 2021 senza un bazooka a disposizione delle banche, sarebbe opportuno che il meccanismo di backstop, previsto dal MES riformato, fosse anticipato ulteriormente, in maniera da essere subito disponibile, fin dall’inizio del processo di ratifica del trattato (fine gennaio) da parte dei Parlamenti nazionali.

Ricordiamo che il Fondo unico di risoluzione bancario, attualmente esistente, è un fondo, capitalizzato dalle banche dell’Eurozona, che interviene per la risoluzione ordinata delle crisi degli istituti di credito, in maniera da evitare che i potenziali default diventino sistemici, per via dell’effetto contagio. L’ulteriore anticipo di un anno del fondo unico ‘backstop’ dovrebbe idealmente essere accompagnato anche dall’entrata in vigore immediata dell’EDIS, lo schema di assicurazione dei depositi europeo, da anni in agenda tra le istituzioni dell’eurozona ma ancora lontano dall’essere attuato. L’EDIS, lo ricordiamo, è un sistema di protezione dei depositi dei risparmiatori europei che, in caso di crisi bancarie estese, rischierebbero di perdere accesso al denaro depositato, in assenza di uno schema di garanzia che li tuteli in aggiunta a quanto già costituzionalmente previsto da tutti gli ordinamenti nazionali degli Stati membri. Insomma, accompagnare il processo di ratifica del nuovo MES (lungo tutto il 2021) con una prima piena attuazione del fondo Salva banche finanziato dal vecchio MES, ed un irrobustimento delle tutele a favore dei depositanti in tutta Europa. Come sarebbe possibile realizzare tutto ciò?

L’idea parte dalla considerazione che i 68 miliardi di euro di dotazione del Fondo di Risoluzione Unico già vigente, creato dalle banche stesse, appaiono insufficienti per far fronte da soli al credit crunch potenziale che potrebbe investire nel 2021 e 2022 il sistema bancario europeo.

Per questo motivo, potrebbe costituire una straordinaria novità, produttrice di stabilità e deterrenza, la creazione presso il vecchio Mes di una nuova linea di credito temporanea, pensata appositamente per fornire una ulteriore garanzia anticipata al Fondo di Risoluzione Unico europeo, una linea avente la stessa base giuridica della ‘Pandemic Credit Line’ azionata la scorsa primavera per offrire copertura per le spese sanitarie dirette ed indirette sostenute dagli Stati membri dell’area euro per affrontare la crisi. Una linea di credito pensata ad hoc ex art. 136, comma 2 del TFUE, per fornire garanzie al sistema bancario, con una dotazione pari al 2% del Pil dell’Eurozona, che si esaurirà nel momento di entrata in vigore del common backstop nel 2022. Una sorta di ‘polizza di assicurazione’ per il 2021, subito pronta, e che faciliterebbe il processo di ratifica da parte dei Governi, che con questo strumento avrebbero qualcosa di concreto da mostrare ai risparmiatori, ancora dubbiosi rispetto alle promesse di immediatezza delle risorse fornite dal Next Generation. Una linea di credito che probabilmente non dovrà (si spera) neppure essere utilizzata, essendo appunto una garanzia da escutere solo in caso di crisi effettiva degli istituti di credito dell’Eurozona. Ma il rafforzamento della garanzia pubblica, si sa, sarebbe apprezzata immediatamente dai mercati, perché contribuirebbe a ridurre il rischio sistemico del credito europeo, a tutto vantaggio dei paesi maggiormente esposti come l’Italia. Minor rischio significa minori tassi di interesse al dettaglio e una ripresa dei corsi azionari delle banche europee, ancora al di sotto dei livelli pre-crisi.

Questa nuova linea di credito, da realizzarsi subito, sarebbe, dunque, una soluzione win-win per i governi europei, le banche e i cittadini. Per questo motivo sarebbe bene cominciarne a parlare fin dal prossimo Euro Summit dell’11 dicembre e certamente a gennaio, prima della sottoscrizione da parte del Coreper a Bruxelles del nuovo trattato MES.

A ben pensarci, in fondo, quelle di Ungheria, Polonia e degli altri sovranisti, compresi quelli di casa nostra, sono le ultime strenue resistenze alla nuova Europa. Resistenze che si esplicitano da un lato nei veti di Ungheria e Polonia al bilancio europeo, perché ’Next Generation’ significa anche regole sui diritti democratici comuni di una nuova Europa veramente federale e comunitaria; e dall’altro nei veti sovranisti sul MES, visto che questi ultimi, coerentemente, non vogliono l’Europa delle istituzioni comunitarie condivise, fino al rifiuto dell’idea di moneta unica.

Bisogna leggere così questo momento storico: o con l’Europa dell’euro o contro l’Europa. Per questo motivo, occorre dire sì, con la ragione, al nuovo MES, guardando con il cuore al futuro, e dicendo no all’involuzione sovranista e autoritaria del Vecchio Continente. In fondo la nuova Europa non può che essere comunitaria, federale e dei diritti. Il passaggio di fase è tutto qui, è bene esserne tutti consapevoli.