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R.BRUNETTA (Editoriale su ‘Huffington Post’): “CHI È EUROPEISTA E CHI NO. TEMPO DI ESAMI DI COSCIENZA – A Salvini dico, appartenere al club europeo non significa fare “cherry picking”, ovvero scegliere soltanto le ciliegie che piacciono”

 

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La nuova Europa non può essere un pasto gratis, né un luogo comune, tanto meno una strumentale “retorica” che consenta troppo facilmente di distinguere tra buoni e cattivi. La nuova Europa è, e dovrà essere, ben di più. È già una comunità formata da un insieme di storie, regole, istituzioni di successo, che hanno però bisogno di ulteriore spirito comunitario e di comune visione del futuro. Oggi siamo a un punto di passaggio tra la vecchia comunità-Unione, costruita dopo la seconda guerra mondiale, pragmaticamente sulla messa in comune di carbone e acciaio, poi sul soft power del mercato unico e delle regole sulla concorrenza e sulla moneta; e quella nuova, basata sul momento Hamilton (dal nome di Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti che nel 1790 riuscì a trasformare il debito che le 13 colonie avevano accumulato nella lotta per l’indipendenza dal Regno Unito in debito pubblico del nuovo stato federale, mettendo così le basi per la nascita dei moderni Stati Uniti), nato dalla pandemia, ma potenzialmente catalizzatore e regolatore del futuro.

Al di là delle cifre stanziate, dei grants e dei loans, e dell’ammontare complessivo delle risorse messe in comune dagli Stati europei, il vero valore del NGUE sta nella sua narrativa, nella sua potenza di progettazione del nuovo modo di stare insieme, esattamente come fu il piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa e del mondo nel secondo dopoguerra del ‘900.

Proprio per questo motivo occorre fissare, bene e ora, le regole del gioco della fase costituente del nuovo “club” europeo. E in questa transizione, la dimensione economico-finanziaria, oltre a quella politica dei nuovi trattati e dello stato diritto, diventano elementi fondanti e dirimenti.

Appartenere al club europeo non significa fare “cherry picking”, ovvero scegliere soltanto le ciliegie che piacciono, infischiandosene degli altri commensali. La nuova Europa non può essere à la carte. Ovvero, non si può pensare di ottenere solo i vantaggi del club, senza pagarne i costi e osservarne le regole. Nessuno può fare il “free rider”, quel soggetto cioè che usufruisce di un servizio o gode di un vantaggio senza pagare il biglietto. Nessun opportunismo, dunque, miope ed egoista. Nessun azzardo morale. Insomma, non c’è posto per i furbi. Ecco, l’Italia deve dimostrare di saper dare, oltre che di saper ricevere.

La nuova Europa deve essere sempre una comunità di onori ed oneri, di valori e di equità. Come qualsiasi altro club, dove dei vantaggi si gode solo a patto di pagare la quota annuale e rispettare le regole della casa. E questa deve essere la discriminante anche nel posizionamento politico in casa nostra, per capire chi è veramente europeista e chi no. L’Europa federale, auspicabilmente, dovrà prevedere sì la mutualizzazione strutturale delle risorse finanziarie, anche dopo i 6 anni eccezionali del NGUE, ma a patto che tutti gli Stati membri paghino la loro quota, secondo regole condivise e definite insieme e che tutte le storiche famiglie politiche del Vecchio Continente ne costruiscano la nuova Costituzione, in maniera convinta e trasparente.

E adesso una riflessione in casa nostra, all’apparenza marginale, ma in realtà di grande significato politico: nei giorni scorsi, il leader della Lega Matteo Salvini dichiarava che “i soldi a prestito (loans) del Recovery Plan, da restituire con gli interessi, sono due terzi dell’ammontare totale, non li prenderei perché li posso chiedere al mercato a tassi migliori”. Frase di buon senso, pienamente compatibile con l’attuale visione sovranista della Lega secondo quella che, con un sorriso, ho già avuto modo di chiamare “Borghi-Bagnainomics”. Visione, come dicevamo, apparentemente di buon senso, ma sbagliata tanto dal punto di vista economico e finanziario, quanto da quello politico e istituzionale. Vediamo perché.

Dal punto di vista finanziario, l’affermazione di Matteo Salvini non sta in piedi perché si basa su una errata interpretazione del principio del “merito di credito” di un Paese, inteso come tutta quella serie di condizioni economiche e finanziarie favorevoli (crescita economica, bassa disoccupazione, ridotti livelli di deficit e debito pubblico, finanze pubbliche solide) che rendono attraenti i titoli di Stato emessi da quello stesso Paese. Quanto maggiore è il merito di credito, tanto migliori sono le condizioni di finanziamento e l’accesso ai mercati.

L’idea di Salvini si basa dunque sull’assunto che i bassi rendimenti sui nostri Btp siano del tutto indipendenti dai vantaggi per l’Italia di far parte dell’Unione europea e dell’euro, mentre invece, se c’è proprio un motivo per cui i nostri rendimenti sono ai minimi, è il fatto che l’Italia gode delle politiche monetarie espansive della Banca Centrale Europea, creata appunto per gestire la moneta unica, e che gli investitori scommettono sul fatto che i 209 miliardi di euro stanziati dal Next Generation UE Fund dovranno servire a finanziare la ripresa economica del nostro Paese. Le politiche monetarie e fiscali dell’Europa creano quindi effetti finanziari positivi per l’Italia, cioè il suo merito di credito attuale. Detto diversamente, se l’Italia non aderisse alla Ue e all’euro non avrebbe condizioni così favorevoli. L’accesso conveniente al mercato è quindi figlio delle istituzioni europee e del funzionamento di Unione Europea ed Eurozona.

Quanto al Recovery Fund di cui parla Salvini, poi, è noto che esso va preso nel suo insieme, non facendo il “cherry picking”, come suggerisce il leader della Lega. Perché se si fa parte del club europeo, si gode dei benefici solo se si rispettano le regole. Non è possibile prendersi solo i vantaggi, e rifiutare le condizioni che non fanno comodo. Conti alla mano, l’Italia è la principale beneficiaria di questo piano d’intervento senza precedenti del NGUE, con i paesi del Nord Europa che hanno accettato di trasferire risorse dai loro bilanci nazionali ma che, per questo, hanno anche posto delle giuste condizioni per il loro utilizzo. Un principio giusto e comprensibile. Anche perché, diciamoci la verità, sull’uso storico dei fondi europei ordinari l’Italia non ha mai brillato per efficienza ed efficacia. Lecito, quindi, che chi ci presta o regala soldi pretenda di avere qualche garanzia in cambio per il loro corretto utilizzo. E le garanzie, in questo caso, sono l’obbligo da parte dei Governi di predisporre un Piano Nazionale di Resilienza e Ripresa che contenga tutte quelle riforme strutturali che, nello specifico, il nostro Paese non ha mai realizzato e che sono la causa di tutti i nostri guai.

Sul fatto che poi l’Italia abbia oggi rendimenti sovrani così bassi, questo, lo ripetiamo, non dipende certamente dal suo attuale merito di credito. Noi in questa fase usufruiamo del merito di credito dei Paesi virtuosi. È bene che ce lo mettiamo in testa. A riprova, basta vedere il rating del nostro debito pubblico, appena sopra il livello “spazzatura”, per capire come l’Italia non goda certo di una buona reputazione sui mercati. E diciamo pure francamente che in assenza della BCE e dei fondi del NGUE, garantiti dalle finanze pubbliche dei Paesi del Nord, la nostra Italia sarebbe già finita in default da parecchio tempo. Insomma è in atto un trasferimento di reputazione, che ci consente di tenere basso il costo del nostro indebitamento: è quindi per il merito di credito dei Paesi più virtuosi che i nostri Btp vengono emessi a rendimenti bassi, non per il nostro.

Sul lato politico, poi, non si capisce come il leader della Lega si candidi a guidare l’Italia, di fatto attaccando l’Europa e i suoi strumenti finanziari. Se Salvini dovesse davvero, e glielo auguriamo, diventare primo ministro dopo una vittoria del centro-destra alle elezioni, come reagirebbero a quel punto gli altri Paesi europei? Sicuramente chiederebbero al leader della coalizione vincente o di cambiare posizione sul club europeo, cosa francamente auspicabile, o di lasciare il club. Vale a dire, o aderire alle regole (Recovery Plan, euro, Mes riformato) o di uscire dall’Unione e dall’euro. Chiunque può bene immaginare come una ambiguità del genere, in questo momento, sia l’ultima cosa di cui l’Italia ha bisogno. Solo, infatti, con il pieno utilizzo di tutti gli strumenti dell’Unione, l’Italia può uscire dalla crisi. Il dire “ce la facciamo da soli” significa solo dare un segnale politico pericoloso agli italiani e agli altri partner europei sul come l’Italia intende il suo ruolo nelle istituzioni comunitarie.

Certamente, se l’Italia dovesse davvero uscire dall’euro e dalla UE, Matteo Salvini e gli economisti della Lega si accorgerebbero subito di cosa vuol dire emettere bond a rendimenti nettamente superiori, senza avere le politiche di intervento di una banca centrale come la BCE. E se si mettessero a fare i conti su quanti miliardi di euro d’interessi l’Italia ha già risparmiato con l’adesione all’euro, si accorgerebbero che essere contro l’Europa non è poi così conveniente.

Senza nemmeno rendersene conto, Salvini e i suoi ispiratori stanno dicendo tra le righe che l’Europa sarebbe talmente conveniente per l’Italia da non essere nemmeno necessari piani straordinari di prestiti, essendo già sufficiente l’appartenenza all’Europa e all’euro a garantirci.

Si potrebbe dire che sono ultraeuropeisti, se non fosse che sono semplicemente ultraconfusi e contraddittori.

Noi dobbiamo garantire agli italiani, alle cancellerie europee e ai mercati un tasso di crescita nominale del nostro Pil superiore al tasso di interesse medio pagato per il servizio del nostro debito, cioè che il numeratore cresca meno del denominatore nel rapporto debito/Pil. È questo il valore al quale deve aumentare il potenziale di crescita dell’economia italiana (dai numeri da prefisso telefonico di questi ultimi anni) se vogliamo salvarci dalla crisi COVID. Senza questo scatto di crescita, non saremo assolutamente in grado di domare e far scendere il nostro rapporto debito/PIL accumulato in questi anni. La politica monetaria, dunque, da sola non basta: occorre che la maggiore liquidità garantita dalla BCE si trasmetta all’economia reale attraverso la crescita prodotta dalle politiche economiche e fiscali degli Stati e dell’Unione nel suo complesso. Per questo serve chiarezza, tanto nel centrodestra, quanto nel centrosinistra.

Abbiamo 3 anni di tempo, prima del baratro, entro i quali dobbiamo garantire due condizioni: primo, mettere in campo gli investimenti e le riforme del Recovery Plan, nei tempi e nei modi indicati dall’Europa, senza se e senza ma, visto che una volta tanto ci pagano per crescere di più e noi dobbiamo farlo in fretta; secondariamente, operare affinché i tassi di interesse sul nostro debito restino bassi (ma per questo serve il merito di credito che solo l’Europa ci garantisce).

Per fare questo, oltre al tema del Recovery, dobbiamo assicurarci di restare il più possibile sotto l’ombrello della BCE negli acquisti del nostro debito. Ma quell’ombrello non è infinito: copre poco più di 100 miliardi di nuovo debito italiano da qui fino al 2022, e poco più di 50 negli anni a venire.

Da oggi e per i prossimi 5 anni, infatti, l’Europa emetterà il suo debito, 750 miliardi di euro di emissioni ‘tripla A’ per pagare Next Generation EU. Logicamente l’appetito del mercato (e della BCE) si sposterà in gran parte verso i titoli europei, a discapito dei singoli Paesi, quindi anche dei nostri. Dunque, ogni passo del debito italiano fuori dalla copertura, oggi comunque garantita da Recovery/BCE, rischierebbe di costarci carissimo.

Questa dunque è la rotta politico-finanziaria che ci fa evitare di andare a sbattere. Ogni altra alternativa opportunistica, sovranista, intergovernativa, anacronistica e autarchica, somiglierebbe tanto a quei marinai della domenica che: ‘…fa bello e non vedo ostacoli davanti, salpo tranquillo’. Auguri.