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R.BRUNETTA (Editoriale su ‘Huffington Post’): I GIOVANI IMPAURITI E I LORO CATTIVI MAESTRI – Ad Huffpost spiego la riforma dei concorsi “per non piegarsi alla mediocrità”

 

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«Appartengo a quella schiera di ragazzi che hanno espresso preoccupazione per l’articolo 10, comma 1. È ormai da un anno che dedico 8-9 ore di studio al giorno in vista della preparazione dei concorsi pubblici, facendo mille sacrifici e rinunce, perché il mio obiettivo è servire lo Stato lavorando nel pubblico impiego». È una delle tante lettere e segnalazioni sui social network che sto ricevendo in questi giorni dopo il varo della riforma dei concorsi contenuta nell’ultimo “decreto Covid”. Lettere che leggo con apprensione. Mi preoccupa innanzitutto la paura che trapela dai nostri ragazzi, l’assenza di speranza, il fatto che tantissimi in questi anni abbiano dovuto dedicare tempo ed energie per rincorrere un sistema inquinato dalle sue stesse inefficienze: ci vedo la fatica di farsi largo in un “concorsificio”, tra società specializzate e studi legali sempre pronti ai ricorsi contro le esclusioni. Anche adesso, a norme appena entrate in vigore.

Io voglio riportare i giovani al centro: non come vittime delle distorsioni, dei concorsi ottocenteschi con carta e penna, delle selezioni con centinaia di migliaia di partecipanti che possono durare fino a quattro anni, dei quiz come per la patente auto. Ma come protagonisti di una Pubblica amministrazione che ha disperato bisogno di essere rinnovata e qualificata per diventare catalizzatore della ripresa.

Per questa ragione, devo spiegazioni a chi è spaventato e anche ai tanti – professori universitari, esperti, studiosi, ex presidenti di enti pubblici – che paiono difendere l’attuale apparato concorsuale come l’unico infallibile sistema per reclutare giovani talenti nella PA. A chi sembra sostenere che titoli universitari, dottorati e master non devono contare nulla per la PA di cui tanto lamentiamo lentezza e inefficienza, perché anzi sarebbero “discriminatori”, quasi un colpo di fucile alla meritocrazia. Ha ragione chi, come @mausassi, su Twitter ironizza: «La cosa, avvilente e divertente a un tempo, è che si sta parlando di cambiare una modalità di reclutamento (che di difetti ne ha mostrati a iosa, altro che “la migliore”), ma qualcuno s’è scatenato manco avesse visto Lutero affiggere le sue 95 tesi alla porta di Wittenberg».

Innanzitutto, è doveroso un chiarimento. L’articolo 10 interviene su più tipologie di concorso, stabilendo per tutti la completa digitalizzazione della prova scritta ed eventualmente anche la prova orale in videoconferenza (la vera rivoluzione, purtroppo poco o per nulla commentata) e introducendo modalità semplificate, in piena sicurezza grazie al nuovo protocollo validato dal Comitato tecnico-scientifico, per permettere lo sblocco delle selezioni che si erano arenate anche a causa della pandemia:

  • per i concorsi già banditi per i quali non sia stata svolta alcuna prova, le amministrazioni possono, non devono, prevedere una fase di valutazione dei titoli di studio legalmente riconosciuti ai fini dell’ammissione alle prove successive e possono prevedere una sola prova scritta e una eventuale prova orale;
  • per i concorsi che saranno banditi durante lo stato di emergenza, è obbligatoria la fase di valutazione dei titoli di studio legalmente riconosciuti ai fini dell’ammissione alle fasi successive, così come la prova scritta. La prova orale, invece, resta eventuale.

Gli unici concorsi per cui si dà la possibilità di evitare la prova orale sono dunque quelli legati alla situazione straordinaria e drammatica che stiamo vivendo da più di un anno. Come quelli che siamo orgogliosi di aver sbloccato subito: il Ripam Campania e il “concorso Sud”, che serve a reclutare 2.800 tecnici per irrobustire la capacità amministrativa nel Mezzogiorno in materie tra l’altro ad altissima specializzazione, come la gestione dei progetti comunitari. L’unico – proprio per le sue specifiche finalità – che prevede in fase iniziale anche la valutazione delle esperienze professionali insieme ai titoli di studio legalmente riconosciuti. In tutti questi casi il beneficio di consentire urgentemente lo sblocco di quasi 120mila posti rimasti impigliati nella mortifera ragnatela del virus, che significano speranze di lavoro e sacrifici paralizzati, ci è apparso superiore al costo.

Rassicuriamo dunque gli autorevoli intellettuali che hanno sentito la necessità di sottolineare come soltanto l’orale possa valutare esperienza, competenza e motivazioni, sostenendo che la norma lo escluda invece a favore del solo scritto. Non ci ha mai neanche sfiorato il pensiero di eliminarlo: la riforma a regime prevede infatti una prova scritta digitalizzata, attraverso una piattaforma apposita che stiamo predisponendo come strumento di pianificazione e semplificazione del reclutamento pubblico; e naturalmente una prova orale, anche in videoconferenza. La novità è rendere obbligatoria la fase iniziale della valutazione dei titoli di studio legalmente riconosciuti per l’ammissione alle prove successive, al posto dei test preselettivi a crocette. Una decisione coerente con le pratiche internazionali, ad esempio quella europea di Epso.

Non saranno invece valutati all’inizio titoli di servizio o esperienza professionale, come erroneamente leggiamo nei volantini diffusi in rete con l’hashtag #ugualiallapartenza. In quei volantini si sostiene che l’articolo 10 del decreto legge 44/2021 «prevede una preselezione per titoli di studio e di servizio, che renderà impossibile l’accesso alle prove scritte a tutti coloro che non vantano anni di servizio presso la Pa e/o costose certificazioni (master, scuole di specializzazione…)». Preselezione per titoli di servizio? Non è assolutamente vero. Servizio ed esperienza, insieme ai titoli di studio, potranno soltanto concorrere alla formazione del punteggio finale. Una facoltà, quest’ultima, nelle disponibilità delle singole amministrazioni da rendere eventualmente esplicita nei bandi di reclutamento, coerentemente con il livello di specializzazione del profilo da reclutare. E chi parla di «discrezionalità della PA nello scegliere i titoli» non sa quel che dice: già c’è a legislazione vigente il concorso per titoli ed esami, e saranno come sempre i bandi a stabilire i punteggi! Prova ne è ad esempio il concorso INPS del 2017, dove faceva premio la laurea magistrale e la conoscenza della lingua inglese.

Anche l’affermazione secondo cui i titoli di studio sarebbero appannaggio di chi può permettersi costose certificazioni appare depotenziata in un Paese caratterizzato da un sistema di istruzione pubblico, con un’offerta formativa ampia e variegata cresciuta a dismisura nell’ultimo decennio anche a causa del ritardato ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Un’offerta su cui lo Stato investe milioni di euro ogni anno. Come ricorda l’indagine AlmaLaurea 2020, l’83,4% dei quasi 4mila dottori di ricerca del 2019 ha fruito di finanziamenti per la frequenza del dottorato, in linea con il Dm 45/2013 che ha stabilito che per ciascun corso di dottorato attivato debbano essere erogati finanziamenti pari ad almeno il 75% dei posti disponibili. L’ultimo rapporto dell’Anvur segnala un aumento, dal 2010 al 2016, della percentuale dei posti di dottorato finanziati, passati dal 61,5% all’82,2%.

La norma, peraltro, non prevede alcuna automatica esclusione dai concorsi dei semplici diplomati o dei semplici laureati triennali, a seconda dei requisiti richiesti per la partecipazione. La fase di valutazione prevista implica invece che le singole amministrazioni potranno individuare un numero massimo, più o meno ampio, di candidati, da ammettere alle prove successive, anche senza fissare un punteggio minimo che deve essere posseduto dai candidati. In base alla composizione della platea di partecipanti, potrebbero dunque accedere alle fasi successive anche tutti coloro che sono semplicemente in possesso dei requisiti di partecipazione. Ai tanti giovani chiariamo che l’obbligatorietà della selezione iniziale per titoli legalmente riconosciuti consente, in sintesi, clausole di flessibilità che le amministrazioni potranno differentemente modulare in sede di redazione dei bandi, coerentemente con il livello di specializzazione, il ruolo e le mansioni del profilo da reclutare.

Siamo convinti che questa sia una spinta per far tornare i nostri giovani a credere nel valore dello studio e della formazione, in linea con le richieste della Commissione europea, che ci sollecita una riforma delle procedure di reclutamento che privilegi le competenze, non le semplici conoscenze. Del resto, meglio conseguire un titolo o acquisire un’esperienza sapendo che potranno essere valorizzati anche nella Pubblica amministrazione, mettendosi al servizio di 60 milioni di italiani, o meglio chiudersi in casa per dedicare mesi, talvolta anni, a memorizzare i quiz per le preselettive, in attesa spasmodica di concorsi che arrivano con il contagocce? Questa è l’inversione di marcia che abbiamo in mente.

Un’inversione di marcia che vede la PA, il più grande datore di lavoro del Paese, esercitare un ruolo chiave nella domanda di profili qualificati in un paese con il più basso numero di laureati in Europa. Vogliamo spingere i giovani a studiare per qualificarsi, non per mandare a memoria batterie di quiz, secondo un malinteso senso di uguaglianza nell’accesso. Un’inversione di marcia che sarà accompagnata da una ripresa delle selezioni pubbliche dopo anni di blocco del turnover.

A regime, attraverso il complesso di investimenti e riforme che stiamo predisponendo nell’ambito del piano Recovery, intendiamo garantire il necessario ricambio generazionale alla PA italiana (che vedrà l’uscita di oltre 300.000 persone nei prossimi anni), evitando le procedure monstre per numero di partecipanti e durata, che tutto premiano fuorché il merito. Puntiamo a bandire concorsi mirati per tipologia di profilo, da quelli meno qualificati a quelli più qualificati, veloci ed efficaci perché effettuati attraverso la piattaforma digitale che stiamo predisponendo; e concorsi finalizzati, attraverso una selezione iniziale, a dotare la PA di personale all’altezza della domanda di buoni servizi pubblici cui tutti i cittadini devono poter accedere, qualsiasi sia la loro condizione economica e sociale. È questa la vera uguaglianza cui mira la nostra Costituzione.

Nella riforma strutturale dei percorsi di accesso alla PA intendiamo inoltre creare corsie preferenziali per i giovani talenti, sul modello del Fast Track inglese, diversificando i canali di accesso e le modalità di impiego, senza timore di usare anche lo strumento del tempo determinato per i ruoli di ingresso, come è prassi internazionale. A quel punto si procederà ad una ulteriore selezione interna, sulla base di una riforma delle carriere cui anche stiamo lavorando, affinché i più bravi, idonei e desiderosi di continuare a lavorare all’interno della Pubblica Amministrazione possano progredire. Questo in linea con il recupero di efficienza e produttività cui tutto il paese è chiamato per i prossimi anni.

Un’inversione di marcia che dovrà vedere la PA impegnata come primo attore anche nella definizione di un nuovo modello di politiche attive nel quale chi non ha le qualificate adatte viene supportato nell’acquisirle con sistemi di formazione pubblica e privata e di aiuti nell’accedervi che consentano di creare le specializzazioni richieste dai lavori del futuro sulla base delle capacità e delle aspirazioni individuali.

Non crediamo dunque in una PA che dia lavoro a tutti. Crediamo piuttosto in una PA che aiuta tutti a costruire il proprio percorso e la propria strada, nel pubblico e nel privato, e che nel farlo privilegia chi più si è impegnato nello studio e nel lavoro.

Un’ultima annotazione. Fin qui ho affrontato, con precisione millimetrica, e dunque sfidando la noia, le novità radicali approntate per garantire l’ingresso nella pubblica amministrazione di giovani che intendono la vita come un percorso di crescita, e non di sistemazione impaurita per evitare i marosi dell’esistenza. Ora offro alla discussione una riflessione di carattere più generale. Me la posso e voglio permettere proprio perché nasce non dal pensiero astratto, ma dalla mia stessa esperienza di vita. Sono nato in una condizione orgogliosamente umile, so bene la rabbia che l’ingiustizia suscita. Ma non se ne esce conformandosi allo status quo. Non è roba da giovani piegarsi alla mediocrità delle sistemazioni furbesche, mettendosi impauriti in fila, in attesa che qualcuno offra l’espediente per cavarsela.

Ho visto in azione anche in questi giorni i “cattivi maestri”. Costoro, paternalisticamente, pretendono di porsi come faro per il futuro dei giovani ammaestrandoli a consegnarsi a un’idea d’uguaglianza dove la speranza coincide con l’aspirazione alla pura sopravvivenza. Dove il valore dominante è l’uno vale uno della passività e della paura di rischiare i propri talenti. La crescita della comunità nazionale nei momenti cruciali della sua storia ha obbedito a ben altri ideali ed esempi. Questa energia di rinascita l’ho vista da ragazzo intorno a me, nella mia Venezia, e ciascuno può trovare nella propria vicenda umana testimonianze coraggiose e vitali. Non si tratta di ripiegarsi nell’autocompatimento, i maestri veri sono quelli che spingono a prendere vento per andare al largo, faticando e studiando, fendendo le onde delle difficoltà.

La discussione sui concorsi ha mostrato, a mio giudizio, il prevalere di queste pericolose posture da “cattivi maestri”. E uso questa espressione in senso filosofico e culturale e non certo in senso politico.

Lo faccio per segnalare i rischi del primato del pre-giudizio, dell’assenza di contestualizzazione storico-sociale, dello sguardo strabico sul mercato del lavoro e sull’interazione pubblico-privato.
Lo faccio per mettere in guardia gli opinion makers dai pericoli generati dall’indisponibilità a considerare ciò che l’Europa ci chiede di fare di fronte all’emergenza pandemica, dalla ritrosia ad annotare che, nel passaggio dal profilo formale a quello sostanziale del principio costituzionale di uguaglianza, occorre considerare – analisi che ricorre – costi e benefici, nell’interesse dell’intera collettività. Che non è una massa anonima, ma è composta da milioni di giovani, ciascuno dei quali unico, con un destino personale irripetibile, cui non offrire più il pane raffermo della paura da esorcizzare con la promessa di una sistemazione.

È un costo per la società un reclutamento lungo e tardivo, che non consideri le professionalità di cui la Pubblica amministrazione ha più bisogno. È un beneficio invece la velocizzazione delle procedure di selezione nella logica della massima trasparenza e della valutazione oggettiva dei profili più utili e preparati. Chi liquida questa necessità richiamando l’abuso (i cosiddetti “bandi ad personam”) sbaglia, o ha una conoscenza solo parziale del percorso completo di riforma che abbiamo in mente, per cui il reclutamento a tempo indeterminato e gli avanzamenti di carriera saranno necessariamente legati alle capacità individuali di contribuire ad una PA che offra servizi all’altezza di un Paese avanzato.

I giovani italiani meritano maestri capaci di svincolarsi dai lacci del passato e intenti a maturare uno sguardo lungo e prospettico, una visione coraggiosa e lungimirante. Facciamo fare questo salto all’Italia. Senza paura.