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R.BRUNETTA (Intervista sul ‘Corriere della Sera’): “Rimuoviamo il blocco delle lobby. Con la Ue un contratto di sei anni”

 

RB Corriere della Sera

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Ministro, il vostro piano di Recovery ha 40 pagine sulle riforme che in Italia tanti interessi costituiti hanno sempre bloccato. Perché questa volta l’impresa dovrebbe riuscire?

«Perché c’è stata una pandemia – risponde Renato Brunetta, titolare della Pubblica amministrazione -. E la pandemia ha messo a nudo i mali del nostro Paese: le corporazioni, i dualismi, gli egoismi, le miopie, la frattura fra garantiti e non. Ha approfondito i punti di rottura, fin quasi al baratro. Ma dall’impatto di questo meteorite è venuto fuori il momento Merkel in Europa che nessuno si aspettava, perché fino a metà lockdown la cancelliera mai e poi mai avrebbe detto sì al debito comune. Invece va reso onore alla sua intelligenza. Da lì è nato Next Generation EU e ora siamo in una straordinaria congiuntura astrale che dà speranza: ci sono i vaccini, un governo di unità nazionale con Mario Draghi, un piano italiano di Recovery di portata storica di cui ancora non ci stiamo accorgendo».

 

Aver tolto l’impegno a mettere fine alle pensioni a Quota 100 fa parte del non accorgersi della portata storica?

«Sì. Ma anche la discussione sul coprifuoco alle 22 o alle 23, uguale. Significa non capire. Forse sarà la mia età, ma io il fatto storico l’ho avvertito».

 

Che succede se Bruxelles ci blocca i pagamenti perché non facciamo le riforme?

«Tutto è legato. Ora siamo nel momento Draghi, che sta diventando il leader d’Europa un po’ perché lui è lui, un po’ perché Angela Merkel sta lasciando e in Francia Emmanuel Macron è preso dalle sue questioni interne. A un tavolo del G20 oggi Draghi non è il più potente, ma è il più autorevole. Quando mai ci era successo?».

 

Ma gli altri a quel tavolo non pensano anche che l’Italia è quel Paese che ha fatto 210 miliardi di debito in 13 mesi?

«Il punto è che la credibilità di Draghi è un asset. E il valore è che l’Italia di Draghi può fare deficit e debito senza pagarne le conseguenze nel giudizio dei mercati. Chiunque lo voglia far cadere deve sapere che non potrà fare né deficit né debito, perché non ne ha la credibilità».

 

Pensa a Matteo Salvini?

«Certamente no. Chiunque facesse cadere Draghi avrebbe la strada sbarrata, perché porterebbe l’Italia al default. Invece di avere un Paese potenzialmente leader in Europa, avrebbe un Paese fallito».

 

Avete discusso con Bruxelles del piano. Ma ora il Recovery vincola anche il prossimo governo? Quello di Draghi può durare solo fino alla fine della legislatura nel 2023.

«Potrebbe durare anche dopo, eh».

 

Un governo Draghi anche dopo il 2023?

«E perché no?»

 

Per quel che si sa, Draghi non vuole scendere in politica.

«È già sceso in politica: è presidente del Consiglio. E in ogni caso il programma del Recovery è di sei anni e vincola anche il prossimo governo. È un contratto. Il piano europeo e gli accordi conseguenti sull’indebitamento, le risorse proprie del bilancio di Bruxelles e il resto sono un contratto con l’Europa che va oltre questa legislatura».

 

I sovranisti dicono: allora far votare i cittadini alle politiche non serve più, perché chiunque vinca dovrà fare quel che si è già deciso altrove. Sbagliato?

«I governi sono tenuti a rispettare i contratti, così come devono onorare i titoli di Stato».

 

Carlo Bonomi, il presidente di Confindustria, apprezza il piano ma lamenta che manchi un coinvolgimento delle imprese.

«Questo è un impianto di grandi riforme che aggrediscono antiche debolezze italiche, con accanto tanti soldi, in un “dopoguerra da pandemia”. La crescita aggiuntiva garantita dal Piano non sta solo nello 0,5% di capitale pubblico più 0,3% di riforme, ma in tutto il capitale privato da metterci grazie allo spazio regolatorio che finalmente stiamo creando, sbloccando i colli di bottiglia che hanno soffocato investimenti e crescita».

 

Gli italiani e la stessa classe politica lo hanno capito?

«Quel che so è che il precedente impianto del Recovery era: tanti soldi, con una paginetta di riforme. Adesso il disegno è capovolto e richiede un’Italia nuova. Non possiamo tornare a farci piccoli dispetti per rosicchiare qualche decimale di consenso istantaneo, quando nei prossimi mesi in Parlamento dovremo mettere mano a riforme fondamentali della macchina dello Stato, nell’interesse dei cittadini e delle imprese. Bisogna abbandonare l’approccio del “cosa c’è per me”, che fa partire subito un conflitto tra corporazioni. Questo non è un fondo da cui si fa tiraggio, non è un meccanismo del “quanto c’è per me”».

 

Dunque come va letto il Recovery?

«Come un’enorme quantità di risorse condizionate alle riforme. Il gioco è completamente diverso. Anche il Piano Marshall fu così: un grande aiuto dopo una catastrofe, che contribuì a formare un clima nel quale il conflitto distributivo si risolse e il Paese potècrescere. Possiamo aprire una finestra di almeno 5 anni di riforme strutturali, sciogliendo nel Recovery tutti i grumi di interessi che bloccano il Paese. Giustizia, pubblica amministrazione, concorrenza, fisco. Sono tutte facce della stessa medaglia. Ma possiamo sciogliere questi egoismi grazie all’unità nazionale e al catalizzatore dei soldi. E questo nonostante le corporazioni e le lobby».
Perché, si sciolgono anche quelle?

«No, continuano a esserci. Ma sono rese impotenti. E questo fenomeno si chiama momento Italia. Ricordo tra l’altro che il 9 maggio inizia la Conferenza sul futuro dell’Europa e con Draghi possiamo giocare un ruolo centrale. La domanda è: dopo il momento Merkel, dove vogliamo andare?».

 

Parlando di riforme, quando arriva il decreto Semplificazioni?

«Siamo quasi pronti, dobbiamo approvarlo entro metà maggio. È la madre di tutte le battaglie, innesco anche per le altre riforme. Ci stiamo lavorando da oltre due mesi con tutti i ministri. Io sto facendo istruttorie approfondite e non saranno misure una tantum, ma con cadenza annuale. Ovviamente non è semplice perché la complessità delle procedure non è mai frutto del caso. Ma occorre essere chiari: perdere questa occasione vuol dire non essere in grado di ripagare il debito pubblico accumulato per far fronte alla pandemia e perdere qualsiasi credibilità nei confronti dell’Europa e del mondo. Non potremmo mai perdonarcelo. Come ha ricordato il presidente Draghi, il nemico è la stupidità. Ora serve tutta l’intelligenza, individuale e collettiva, di cui siamo capaci».