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IL MIO EDITORIALE SU HUFFINGTON POST – Con il G20 di Draghi sull’Afghanistan il secolo europeo può cominciare

 

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LEGGI L’EDITORIALE

 

Il secolo americano è finito. Per l’Italia e l’Ue è il tempo del coraggio. La Bce non soffochi la ripresa seguendo le misure restrittive che vorrebbe la Fed

 

È il momento del coraggio per la costruzione di una nuova Europa. Il G20 straordinario di Draghi, con al centro la crisi in Afghanistan, e l’annuale riunione dei banchieri centrali a Jackson Hole, sono due facce della stessa medaglia, facce che stanno mettendo in evidenza il rischio di un neo isolazionismo degli Stati Uniti agli occhi delle grandi élite internazionali. Oggi spetta dunque all’Europa, e all’Unione europea in particolare, il rilancio dell’Occidente. Come? Rafforzando l’autonomia e la capacità di proposta del Vecchio Continente.

Al prossimo G20 sull’Afghanistan l’Ue può e deve presentarsi unita e credibile, accelerando sulla costruzione dell’Unione europea della difesa, nei termini ben sintetizzati dal ministro Guerini: non tanto un esercito comune, quanto analisi condivisa della minaccia, agenda politica comune, effettiva capacità militare e di intervento. Una voce autorevole e autonoma, quella europea, che nel dialogo con gli Stati Uniti rafforzi la cultura occidentale nel nuovo scenario globale, anche e soprattutto alla luce della crisi afghana. Allo stesso modo, dopo Jackson Hole, dove la Federal Reserve (Fed) si è riunita assieme a tutte le altre banche centrali, la Banca centrale europea (Bce), relativamente al ruolo delle politiche monetarie nella fase di uscita dalla crisi da pandemia, non deve subire la linea di politica monetaria della Fed. Quest’ultima, infatti, nonostante le grandi incertezze che ancora caratterizzano l’ambiente economico internazionale, è orientata ad adottare misure monetarie restrittive entro la fine dell’anno, come annunciato dal suo presidente. Seppur utili agli Stati uniti, tali misure avranno inevitabilmente ricadute globali, e potrebbero risultare premature per noi europei, che non abbiamo ancora completamente recuperato il gap di crescita indotto dalla crisi Covid, e per i mercati emergenti, ancora in ritardo sulla campagna vaccinale e, di conseguenza, sulla strada per la ripresa.

È dunque il tempo del coraggio. Il rimbalzo dell’economia, dopo la crisi provocata dalla tragedia pandemica, assomiglia a un soufflé. Stesso profumo in forno, stessa attesa, identica delicatezza. Ma guai ad aprire lo sportello. Vanno evitati gli sbalzi di temperatura. Senza incertezze, senza mezze misure, con la massima determinazione. Il momento è adesso.

Allo shock della prima ondata della pandemia i governi dell’Unione europea hanno reagito con il Next Generation Eu, un pacchetto straordinario di riforme e investimenti finanziato con debito comune. Quello scatto condiviso e solidale, per nulla scontato, è un patrimonio che non va disperso davanti alle nuove sfide che il virus, con le sue varianti, ci obbliga ad affrontare. Risposte differenziate e ondivaghe, senza coordinamento, sono dannose.

Quale sarà, allora, il prossimo menù sul tavolo dei capi di Stato e di governo dell’Ue? Da più parti si evidenzia la necessità di riflettere sulla nostra Unione europea e la Conferenza sul futuro dell’Europa apertasi lo scorso 9 maggio rappresenta un importante esercizio paneuropeo. Rispetto al quale un posto centrale meritano le nuove regole europee di finanza pubblica. Il dibattito sulla governance economica appare infatti ancora più cogente, perché, come vedremo di seguito, caratterizzerà la capacità delle nostre economie di crescere e competere con quelle del resto del mondo. Le nuove regole di finanza pubblica definiranno la fisionomia della nuova Europa.

È un processo che può subire rallentamenti o anche fermarsi, ma non torna indietro. E non può prescindere dai cicli elettorali che nei prossimi mesi vedranno impegnati gli elettori tedeschi (a fine settembre), quelli della Repubblica ceca (a metà ottobre) e quelli francesi (primavera del 2022). Ma anche noi italiani con l’elezione del prossimo presidente della Repubblica a inizio febbraio 2022. Tornate elettorali che modificheranno il quadro politico in Europa e incideranno sui tempi del processo di riforma.

L’eredità della crisi da Covid-19 lascia l’economia europea su livelli di Pil inferiori a quelli pre-crisi, che saranno recuperati solo a metà 2022 (stime della Commissione europea), al costo di un indebitamento medio pari a circa il 100% del Pil. Una situazione ben diversa da quella in cui furono elaborate originariamente le regole di finanza pubblica in Europa, a cavallo tra gli anni 90 e primi anni 2000, in cui i livelli medi di indebitamento non superavano il 70% del Pil.

Anche le dinamiche di inflazione e dei tassi di interesse sono profondamente cambiate. La componente nominale degli interessi sul debito dei Paesi dell’area euro, che nel 1999 era pari a circa il 4% del Pil, nel 2019 è scesa all′1,6%. Sul fronte inflazione, guardando quella “core”, il tasso medio si è ridotto da poco sotto il 2% registrato a cavallo tra gli anni 90 e i primi anni duemila (non a caso l’obiettivo di riferimento Bce), a un tasso che ha stentato a superare l’1% nell’ultimo decennio, a causa dei cambiamenti strutturali dal lato dell’offerta indotti dalla globalizzazione e, soprattutto, dal progresso tecnologico.

È evidente come il profondo mutamento del quadro macroeconomico stia già mettendo e metterà in discussione anche in futuro la pertinenza dell’attuale quadro di regole fiscali dell’area euro, a partire da quelle di sorveglianza dei bilanci pubblici codificate all’interno del Patto di Stabilità e Crescita (Psc).

Quest’ultimo è attualmente sospeso, fino alla fine del 2022, per effetto della “general escape clause” ma vi è generale consenso tra economisti e policy-maker sul fatto che le regole progressivamente stratificatesi all’interno del Psc siano poco chiare, difficili da attuare e che esse determinino conseguenze pro-cicliche sull’economia degli Stati membri, come già capitato nel corso della crisi finanziaria del 2008-2012.

Le stime dei potenziali di crescita e degli output gap risultano, alla prova dell’evidenza empirica, errate e inattendibili. In un contesto di uscita da una crisi come quella attuale, in particolare, queste stime potrebbero essere caratterizzate da una aleatorietà ancora maggiore.

Il rischio, paventato da molti analisti, è che il ripristino delle regole esistenti del Psc già a partire dal 2023 renderebbe la politica di bilancio particolarmente restrittiva in alcuni Stati membri in un momento in cui il pieno recupero dalle conseguenze della crisi non sarebbe stato ancora completato.

Vi è, inoltre, un tema specifico legato all’applicazione omogenea della regola di aggiustamento del debito pubblico, che richiede una correzione annua pari a 1/20 della quota eccedente il 60% del rapporto tra debito e Pil. Come recentemente osservato dallo European Fiscal Board nel suo ultimo Rapporto del 16 giugno 2021, l’applicazione di questa regola nell’attuale contesto macroeconomico determinerebbe in oltre il 50% dell’area euro (Francia, Italia, Spagna, Belgio, Grecia segnatamente) un livello di avanzo primario decisamente superiore alla media storica di questi Paesi generando, di fatto, una restrizione fiscale sostenuta nel tempo.

Quest’ultima potrebbe avere effetti avversi sulla crescita economica, e, dunque, sullo stesso livello di indebitamento, rendendo l’utilizzo della attuale clausola del debito controproducente per tutta l’area euro, oltre che potenzialmente destabilizzante da un punto di vista politico.

Da qui l’opportunità di riforma preventiva del Patto di stabilità e crescita prima della sua nuova applicazione dal 2023 a favore di una semplificazione, sia pure mantenendo inalterato l’obiettivo di fondo legato alla sostenibilità del quadro di finanza pubblica europea.

In aggiunta al dibattito sull’adeguatezza delle regole esistenti rispetto all’attuale contesto macroeconomico, la riforma della finanza pubblica deve tenere conto, altresì, di due mutamenti strutturali, tra loro collegati, che si sono verificati all’interno dell’area euro durante la gestione della pandemia.

Da un lato, lo shock del Covid-19 ha ampliato una profonda e già esistente asimmetria tra i debiti pubblici dei Paesi dell’eurozona. A fine 2020, tre su quattro tra le grandi economie registravano un rapporto debito/Pil tra il 120 (Francia e Spagna) e il 155 (Italia) per cento, mentre la Germania si attestava attorno al 70 per cento. Gestire la politica monetaria unica in questo contesto, in assenza di politiche di bilancio a livello comunitario, è evidentemente problematico.

Collegata a questa dinamica, e secondo elemento strutturale di novità, è la creazione, almeno temporaneamente, di una capacità di bilancio europea, con l’emissione di debito comune e la presenza di elementi redistributivi tra Stati membri, ossia il Next Generation EU (Ngeu), il “momento Merkel” dell’Europa. Il pacchetto Ngeu è stato disegnato come un’eccezione al bilancio comunitario e il suo esaurimento è già previsto a partire dal 2026. Tuttavia, almeno per i prossimi cinque anni, la Commissione Europea sarà uno dei più importanti emittenti di titoli pubblici ad alto rating sul mercato, e proprio questo alto rating costituisce, già oggi, un rilevante fattore di garanzia per i mercati finanziari. Riportare indietro le lancette dell’orologio al mondo pre-Ngeu, in cui il debito comune europeo non esisteva, potrebbe rivelarsi niente affatto ovvio. Così come non lo è il riassorbimento delle politiche monetarie non convenzionali di Quantitative Easing, che da temporanee sono diventate un ingrediente chiave della strategia di politica monetaria, come affermato da Christine Lagarde nell’annunciare la nuova strategia monetaria della Bce. Pertanto, è possibile che il debito europeo finisca per diventare uno strumento permanente di politica economica.

Alla luce di tutto questo, un accordo limitato alla semplificazione delle regole di finanza pubblica, in assenza di un quadro prospettico relativo alla creazione di una autonoma “capacità di bilancio” europea post-Ngeu, rischia di generare una “dominanza fiscale” nell’ambito della politica monetaria.

In altri termini, la Bce si troverebbe stretta tra le politiche monetarie restrittive che arrivano dalla Fed, da un lato, e livelli asimmetrici di debito nell’eurozona, dall’altro, esponendo l’euro a un rischio di imperfetta, e dunque subottimale, trasmissione della politica monetaria. Una soluzione possibile è già stata adottata eccezionalmente nell’ambito del Pandemic Emergency Purchase Programme, che infatti consente acquisti asimmetrici di debito pubblico dei singoli Paesi. Ma proprio perché eccezionali, questi tipi di intervento non dovrebbero diventare la norma nella conduzione della politica monetaria, se si vogliono rispettare i vincoli presenti nei Trattati.

Per questa via, l’attuale contesto macroeconomico e di regole fiscali rischia dunque di scaricare in capo alla Bce la gestione delle asimmetrie di bilancio.

Ne consegue che l’acquisto di titoli da parte della Bce sui mercati secondari – che significa la perpetuazione del programma di Quantitative Easing – diventerebbe una scelta obbligata, poiché, in sua assenza, lo scenario davanti al quale si troverebbe l’economia europea sarebbe inevitabilmente quello dell’esplosione degli spread, con il rischio del propagarsi di una nuova crisi finanziaria. Tutto ciò proprio per l’assenza di una politica di bilancio comune. Un evidente sintomo dell’incompletezza dell’Unione monetaria.

Che fare allora? Come detto, il dibattito tra economisti in Europa è vivace e gli spunti per una proposta di riforma non mancano, ma con essi emergono anche i vincoli. Idealmente, per le ragioni elencate sopra, logica vorrebbe che si mettesse mano a una riforma dei Trattati europei per ridisegnare l’intera governance economica dell’Unione europea. Riforma che non dovrebbe riguardare solo le soglie dei rapporti deficit/Pil e debito/Pil, ma anche ridefinire il ruolo della Bce e rafforzare il bilancio comunitario con un’ulteriore cessione di sovranità di bilancio degli Stati membri, prevedendo, inoltre, l’istituzione di un ministro delle finanze europeo.

A livello teorico, un’unione monetaria come l’eurozona può essere definita “ottimale” soltanto se è in grado di superare il problema della cosiddetta “impossibile trinità”, noto concetto sviluppato dalla filosofia teoretica e poi declinato in economia, prima, nel 1961, dal premio Nobel Robert Mundell per teorizzare il concetto di area valutaria ottimale e poi, nel 2012, da Hanno Beck e Aloys Prinz per spiegare le anomalie che ancora caratterizzano l’eurozona. In parole semplici, per effetto di questa impossibile trinità, non si può avere contemporaneamente: 1) sovranità nazionale sulle politiche di bilancio, 2) presenza di una clausola di non salvataggio per i Paesi membri in una situazione di default (no bail out clause) e 3) una banca centrale indipendente. Se si hanno due di queste tre condizioni, la terza, proprio per il principio dell’impossibile trinità, non può esserci.

Nella attuale architettura dell’eurozona, poiché la clausola di non salvataggio è incardinata nei Trattati (art. 123), se gli Stati vogliono continuare a mantenere la sovranità nazionale sulle politiche di bilancio ne deriva che delle tre condizioni verrebbe a mancare l’indipendenza della banca centrale, con la politica monetaria costretta a supplire alla mancanza di sovranità di bilancio delle istituzioni europee (o, vista al contrario, dalla presenza di sovranità di bilancio assegnata ai singoli Stati). Alternativamente, si dovrebbe immaginare una non rigorosa applicazione della clausola di “no bail out”, ovvero del non salvataggio degli Stati membri che si trovano in una situazione di default, ma questo minerebbe la credibilità giuridica di tutto l’impianto comunitario.

Dunque l’unico modo attraverso il quale sarebbe possibile garantire nel tempo piena indipendenza alla Bce, per evitare che questa sia “catturata” dai governi nazionali, è la cessione di sovranità di bilancio da parte degli Stati membri verso le istituzioni europee. In altre parole, come conseguenza di questa cessione di sovranità di bilancio, sarebbe la Commissione Europea, o un futuro ministro delle finanze europeo, che deciderebbe, in piena autonomia, gli obiettivi di deficit e debito pubblico che l’Unione deve raggiungere anno per anno. Di nuovo, solo con questa cessione di sovranità, accompagnata dall’aumento della dotazione finanziaria del bilancio europeo e da un processo di mutualizzazione dei debiti, oltre che dall’istituzione di un serio sistema di trasferimenti fiscali dai paesi più ricchi a quelli più poveri gestito da un unico ministro delle finanze europeo e con una Bce finalmente indipendente, l’eurozona godrebbe di quelle condizioni di ottimalità che ancora le mancano.

Per far tutto questo è necessario modificare corposamente i Trattati europei. Nel contesto attuale, però, pare non esserci lo spazio politico per aprire un così profondo processo di riscrittura degli stessi. Se il first best, ovvero l’unione monetaria ottimale, non è al momento percorribile, occorre necessariamente ripiegare su una soluzione di second best, che consiste nella modifica della sola legislazione secondaria dell’Unione (in particolare il “Six-Pack”, il “Two-Pack” e il “Fiscal Compact”, quest’ultimo un trattato internazionale) riguardante le regole di bilancio, lasciando intatti i trattati fondativi dell’Unione europea e mantenendo la sovranità di bilancio in capo ai singoli Stati. In quest’ambito, sarebbe anche possibile avviare il percorso per un accordo intergovernativo che, capitalizzando su quanto già fatto con il Recovery Plan, crei un minimo di capacità fiscale europea per il periodo di programmazione finanziaria 2028-2034, ossia dopo Next Generation EU. Con la consapevolezza, però, che una soluzione di second best produrrà sempre risultati subottimali di performance dell’eurozona rispetto ad altre aree valutarie.

In Italia, come in Europa, è ora il momento del coraggio. L’ottimismo è inevitabile: il risultato può regalare grandissime soddisfazioni, a patto che si colga l’attimo con fermezza e lungimiranza. Nell’attuale contesto geopolitico, dobbiamo imparare a fare da soli, a Jackson Hole come al G20 straordinario. Perché domani l’Europa sarà ciò che oggi ha scelto di essere. Il glorioso secolo americano è finito. Il secolo europeo può cominciare.