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R.BRUNETTA (Intervista al ‘Corriere della Sera’): “Serve un Patto tra riformatori. Adottiamo il metodo Draghi anche dopo il voto del 2023”

 

 

RB Corriere della Sera

 

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Non solo l’Italia non può permettersi una crisi di governo, che «sarebbe una catastrofe, con il rischio di uno spread a 500-600 punti base, l’inflazione a due cifre e un Paese sballottato come una barchetta nell’oceano in tempesta», ma è arrivato il momento di cambiare radicalmente paradigma: «Se la realtà ti si presenta in forme mai viste, per affrontarla servono pensieri mai fatti». E questo, secondo Renato Brunetta, ministro azzurro per la Pubblica Amministrazione, significa che «occorre un solido patto politico fra riformatori per dare stabilità al Paese» in vista delle elezioni del 2023 e oltre: «Tutti – forze politiche, Governo, gruppi dirigenti – devono ragionare sul medio-lungo periodo. Non basta più il ciclo elettorale e il ciclo politico. Serve un approccio strategico, che abbracci almeno l’intero decennio che abbiamo davanti».

 Chi sono «i riformatori» che dovrebbero siglare questo patto?

«Sono quelli che stanno nelle grandi famiglie europee, popolare, socialista, liberale. Ma anche chi ha dato convintamente vita a questo governo. Quelli che stanno parlando la stessa lingua e remando nella stessa direzione perché questo esecutivo vada avanti. E nulla osta che possa continuare anche dopo le prossime elezioni politiche».

Quindi FI, il Pd?

«FI, il Pd, la Lega, il M5S, le sinistre, il centro. Tutti i partiti dell’attuale coalizione. Chi ci sta. In queste ore Tajani, Letta e Giorgetti stanno dicendo le stesse cose, ed è importantissimo che non si resti ancorati a un finto bipolarismo che non esiste più».

Ma che resta del centrodestra che fu?

«Il centrodestra era rappresentato da Forza Italia: con tutti gli accadimenti degli ultimi anni si è arrivati a una radicalizzazione e alla perdita di quello che FI rappresentava, la sintesi delle migliori culture di governo».

Ma un’alleanza rinnovata dovrebbe ancora essere guidata da Draghi?

«Ciò che conta è la consapevolezza che quello di Draghi non è un riformismo qualunque, ma un riformismo germinativo, dunque atteso alla prova della sua replicabilità: è la sfida di quest’anno, ma anche del 2023 e oltre. Draghi ha introdotto un metodo e una cultura, non solo di governo, saldamente ancorata allo spirito del riformismo europeista, che adesso deve avere il tempo di innervarsi nelle pubbliche amministrazioni, che sono il cantiere dei cantieri, negli enti locali, nei corpi intermedi, partiti compresi. Io mi auguro che risvegli l’orgoglio responsabile di tutte le classi dirigenti».

 Lei evoca una sorta di rivoluzione del quadro politico.

«Perché siamo di fronte a uno scenario completamente nuovo. Diceva George Orwell che i pensatori della politica si dividono generalmente in due categorie: gli utopisti con la testa tra le nuvole e i realisti con i piedi nel fango. Noi oggi dobbiamo essere entrambe le cose: avere la visione e camminare nel fango. L’anno che ci lasciamo alle spalle è stato di successo: avevamo come missione quella di tirar fuori l’Italia dalla crisi pandemica ed economica e lo abbiamo fatto, sia sul piano della crescita con l’aumento del Pil del +6,5% sia su quello della lotta alla pandemia».

Dopo il 31 marzo saremo fuori dall’emergenza?

«Sono ottimista. Noi faremo quello che farà l’Europa dei Paesi ai nostri livelli di vaccinazioni, ormai sufficientemente attrezzati per affrontare un virus alla sua fase finale: quella in cui diventa “buono” per sopravvivere. Possiamo immaginare il ritorno a una vita normale».

E perché non a una politica «normale»?

«Guardi, troppo a lungo abbiamo visto proliferare i profeti di sventura, i professionisti del “tanto peggio tanto meglio”. Ci sono ancora. E sono coloro che sperano di alimentare con le loro continue lagne e distinguo una nuova stagione di rottura tra popolo e istituzioni democratiche. Fanno prevalere la voglia di potere a costo di regnare sulle rovine che vogliono produrre, seminando sfiducia. Beh, costoro hanno e avranno in me un nemico irriducibile. Il 2022 è l’anno della necessaria conferma della storia di siuccesso del governo Draghi, e ancora di più, del percorso riformatore intrapreso, fondamentale perché abbiamo di fronte le nuove sfide, da quelle geopolitiche – che definiranno il nuovo ruolo dell’Italia nel contesto internazionale – a quelle legate alle dinamiche inflazionistiche e competitive».

Lei guarda al futuro ma scricchioliì pesanti ci sono già ora nella maggioranza.

«Non c’è dubbio che per continuare nella navigazione serve anche un po’ di autocritica da parte di tutti. Certamente di tutti noi ministri, che non sempre siamo riusciti, in mezzo a una così considerevole mole di lavoro, a raccordarci al meglio tanto con i nostri partiti, quanto con il Parlamento. A parte Draghi, con la sua grande sensibilità e autorevolezza, non sempre forse anche Palazzo Chigi è riuscito a dialogare in maniera ottimale con i ministri e con il Parlamento, ma anche questo è un peccato assolutamente veniale, date le condizioni. Il Parlamento è stato sottoposto a un enorme stress, come ha riconosciuto il capo dello Stato. E, siccome questa è una Repubblica parlamentare, il Parlamento ha sempre ragione. Occorre avere tutti una certa dose di sopportazione reciproca. Ma anche la consapevolezza, come ha ricordato Antonio Tajani, che Draghi è l’unico a poter tenere unito il governo, nella differenza tra le forze politiche che lo sostengono».

Quindi le liti non la preoccupano?

«Non basta una notte di tensione su quattro emendamenti assolutamente non cruciali né strategici per affrettare un giudizio ingeneroso, perché, tracciando il bilancio di un anno, io credo che i risultati siano straordinariamente positivi. Non mi preoccupano nemmeno i referendum, perché sono un acceleratore della riforma Cartabia sulla giustizia e perché sui cinque quesiti un centrodestra autenticamente liberale non può avere alcun dubbio: vanno sostenuti, anche creando Comitati unitari per il sì. Se il governo è riformista e il Parlamento è riformatore nessuno deve temerli».

Quali rischi ci sono se il suo desiderio non si avvererà?

«Io sogno che i leader dei partiti, in questo momento, invece che affannarsi a piantare bandierine, un po’ troppo in anticipo rispetto alla campagna elettorale, diano il loro meglio per evitare la guerra. Sulla crisi ucraina, non dimentico il grande ruolo di Berlusconi nello storico vertice Nato di Pratica di Mare del 2002 con Vladimin Putin e con George W. Bush. Oggi abbiamo Draghi assolutamente all’altezza del compito, ma anche un padre della Patria come Berlusconi che, ne sono certo, può ancora giocare da protagonista».

Sul piano economico l’emergenza quale è?

«La mia preoccupazione riguarda la dinamica inflazionistica e la sua potenziale deriva, con la ripresa del conflitto distributivo e l’inevitabile rincorsa prezzi-salari. Non possiamo permetterci anche questa tensione. D’altra parte, quello che già succede con le materie prime e l’energia, quello che accadrà sul costo del denaro, porta inevitabilmente a una nuova fase, che va affrontata per tempo, d’anticipo, non rincorrendola, ricordando la lezione di Modigliani e Tarantelli».

Ma lei vede una politica all’altezza di questo obiettivo?

«La chiave è nel Next Generation Eu. Il cambio di paradigma è lì, declinato secondo l’agenda Mattarella-Draghi, il nostro anti-Gattopardo: la conferma della squadra vincente per cambiare l’Italia. Occorre essere coscienti che un vero statista è quello che pensa alle prossime generazioni, non al consenso immediato. Serve il coraggio di innovare con pragmatismo visionario. Testa tra le nuvole e piedi nel fango. Avanti”.