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IL MIO EDITORIALE SU ‘HUFFINGTON POST’ – Non basta una pace qualsiasi né una pace contro. Bisogna lavorare a una pace “per”

 

pRATICA DI MARE

 

 

 

Oggi e domani il summit di Versailles. L’Europa deve alzare l’asticella davanti a un ordine geopolitico capovolto. Recuperare lo spirito di Pratica di Mare. Tutti nella Nato, tutti nella Ue

 

LEGGI L’EDITORIALE

 

 

Vent’anni fa, il 28 maggio 2002, a Pratica di Mare si realizzò un sogno che oggi, ai nostri occhi segnati dal dolore di una nuova guerra nel cuore d’Europa, appare un miraggio. Quel giorno i leader dell’Alleanza Atlantica, nella base dell’Aeronautica militare a circa 30 chilometri dalla capitale d’Italia, adottarono formalmente la Dichiarazione di Roma, inaugurando il “Consiglio a venti” che comprendeva anche la Russia. Subito dopo, con l’arrivo del presidente russo Vladimir Putin, cominciò il vertice allargato Nato-Russia.

Indimenticabile la foto della stretta di mano tra l’allora premier italiano Silvio Berlusconi, che giocò un ruolo strategico, Putin e il presidente degli Stati Uniti George W. Bush. Un’immagine fortemente evocativa, con cui sembrò materializzarsi una nuova era di alleanze, e non più di contrapposizione e di sfida sul piano globale. Dando vita al Consiglio Nato-Russia, i capi di Stato e di Governo dei Paesi della Nato si impegnarono “a costruire insieme una pace duratura e inclusiva nell’area euro-atlantica sui principi della democrazia e della sicurezza cooperativa, e partendo dal principio che la sicurezza di tutti gli Stati della comunità euro-atlantica è indivisibile”.

A Pratica di Mare, a meno di un anno dagli attentati dell’11 settembre, venne, in sintesi, riconosciuta l’urgenza di superare le logiche logore del passato e di lasciarsi definitivamente alle spalle il confronto-scontro tra blocchi contrapposti. Nasceva l’idea, forte, quasi rivoluzionaria, di improntare ad unitarietà di intenti e di azioni la risposta dell’Alleanza e della Federazione Russa alla rinnovata complessità della sicurezza internazionale, legata alla globalizzazione delle sfide, dal terrorismo al narcotraffico, passando per la pirateria informatica. Sfide che richiedevano reazioni efficaci, anche sul fronte della non proliferazione e della prevenzione del traffico di armi. Certo, nemmeno negli anni Dieci del ventunesimo secolo le posizioni tra gli alleati Nato e la Russia furono sempre coincidenti. Tuttavia allora si partiva dalla medesima Koiné, da un linguaggio e da un convincimento comune: ovvero che a stimoli uguali per tutti dovessero corrispondere reazioni unitarie, che tra Nato e Russia si fosse costituito un capitale di conoscenza reciproca da non disperdere e che i meccanismi di interazione instaurati dovessero mantenere la propria utilità, talvolta prescindendo dai risultati che di volta in volta era possibile conseguire. In breve, esisteva un acquis tra Nato e Russia che fu possibile sviluppare, anche con iniziative comuni in seno al G8.

Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti. Gli alleati della Nato decisero di sospendere la cooperazione civile e militare con Mosca nell’aprile 2014, a seguito dell’intervento russo in Crimea. Ma oggi, mentre vediamo i carri armati russi entrare in Ucraina, le città bombardate e milioni di civili in fuga, ci sembra più urgente che mai una dimensione paneuropea della sicurezza, dall’Atlantico fino agli Urali, come preconizzata da Charles de Gaulle nel 1959, e codificata nei “quattro spazi” comuni del vertice Ue-Russia del novembre 2003 durante la presidenza italiana del Consiglio europeo e con Romano Prodi alla guida della Commissione. Perché la sicurezza è un bene indivisibile: non può – né deve – essere costruita “contro” qualcuno. Non è un gioco a somma zero. La “somma zero” ci riporta alla dottrina della “Mutual assured destruction” degli anni Sessanta. Dobbiamo recuperare la parte migliore della nostra storia, nella consapevolezza che il “bene pubblico” più prezioso – ma anche più raro – nella comunità internazionale è la fiducia reciproca. Nel 2023 ricorderemo i cinquant’anni della Conferenza sulla Sicurezza e sulla Cooperazione in Europa (Csce), convocata a Helsinki il 3 luglio 1973 – in piena guerra fredda – come tentativo di ripresa del dialogo Est-Ovest. Quest’anno ricordiamo i 35 anni del Trattato Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), firmato nel dicembre 1987 da Ronald Reagan e Michail Gorbačëv per mettere fine alla vicenda degli euromissili, e da cui gli Stati Uniti si sono ritirati nell’agosto del 2019. Abbiamo bisogno di rifondare l’architettura paneuropea di sicurezza su basi autentiche di sovranità europea.

Le crisi, d’altronde, sono sempre un’occasione per imprimere una svolta. “L’evoluzione è deriva, devianza, creazione, ed è interruzioni, perturbazioni, crisi”, scriveva il filosofo francese Edgar Morin in “Dove va il mondo?”. È successo con la pandemia e avverrà anche con la guerra in Ucraina. Nel fare i conti con la storia, l’Unione europea è costretta a cambiare paradigma, ed evolvere verso una maggiore integrazione che, senza depotenziare la sovranità degli Stati membri, investa su un governo politico dotato, su alcune specifiche materie, del potere democratico di agire indipendentemente dagli interessi dei singoli governi nazionali. Ciò significa puntare a una divisione verticale della sovranità, che da una parte salvaguardi l’autonomia degli Stati e dall’altra realizzi un trasferimento di potere verso un centro condiviso. Significa concepire un sistema multilivello in cui l’autorità dei governi e la volontà dei cittadini concorrano bilanciandosi in un’architettura istituzionale complessa. Significa, ancora, alzare l’asticella della sfida oltre l’egoismo dei vecchi e dei nuovi nazionalismi. Come abbiamo affrontato la pandemia con modelli nuovi, così ora abbiamo bisogno di modelli altrettanto nuovi per far fronte alla guerra in Europa.

Come ci ricordava il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un suo recente intervento, l’Unione europea non può continuare a fare affidamento soltanto sul proprio status di “potenza normativa”: non è pensabile che la sola forza, pur vigorosa, del mercato unico ci permetta di restare al passo delle sfide attuali. Per essere davvero garante della nostra autonomia strategica, e per far fronte alle discontinuità epocali del mondo attuale, oggi l’Europa deve ergersi a superpotenza: economica, militare, energetica, tecnologica. Non è sufficiente produrre norme e prescrivere comportamenti. Perché gli arbitri non vincono mai la partita.

Risolvere questa incompiutezza della costruzione europea – di un’Europa che da mercato deve diventare anche uno spazio geopolitico di principi e valori condivisi – sarà al centro del vertice informale dei Capi di Stato e di Governo che il presidente francese Emmanuel Macron ha deciso di organizzare per oggi e domani a Versailles sul tema di un nuovo modello di crescita e di investimenti per l’Unione europea.

L’Ue, che nel rispondere alla pandemia da Covid-19 ha ritrovato unità e solidarietà, capacità di reazione alle avversità comuni e spirito di innovazione, è viva e vegeta, a dispetto di chi la credeva e voleva morente. Questo passaggio fondamentale del nostro percorso di integrazione è stato definito come il “momento Hamilton” dell’Europa, in analogia al momento storico che ebbe come protagonista l’allora segretario al Tesoro americano, Alexander Hamilton. Colui che, alla fine del 1700, riuscì a mutualizzare il debito accumulato dalle 13 colonie americane, per far ottener loro l’indipendenza dal Regno Unito, trasformandolo in debito pubblico federale e ponendo, così, le basi per la nascita degli Stati Uniti d’America. Similmente, anche se in Europa le cose sono un po’ diverse, l’aver cambiato idea sul debito comune, cancellando le rigidità delle precedenti posizioni, ha portato alla creazione del Next Generation Eu (Ngeu), un pacchetto finanziario da 750 miliardi di euro, che ha l’obiettivo di accompagnare gli Stati membri fuori dall’emergenza Covid-19 e di ricostruire un’Unione europea più verde, più digitale, più coesa e più inclusiva.

L’invasione russa dell’Ucraina spinge ora l’Unione europea verso un’altra imprevista fase storica, completamente nuova, che richiederà un secondo “momento Hamilton”, un Next Generation Ue 2 finalizzato a finanziare un rinnovato impegno dell’Unione. Collegato, questa volta, all’hard power e all’autonomia strategica della Ue (difesa, cybersicurezza, immigrazione, indipendenza energetica e tecnologica nei settori strategici). Come ha detto esplicitamente ieri in Parlamento il presidente del Consiglio, Mario Draghi, l’Unione europea, oggi, ha tre priorità strategiche: clima, energia e difesa. È importante che le regole di bilancio del futuro riflettano questa visione e che il contesto regolatorio venga rivisto a 360 gradi e a tutti i livelli, europeo, nazionale e regionale. Con l’addio al potere di veto, allargando gli spazi decisionali a maggioranza.

Data la complessità e l’interdipendenza del mondo in cui viviamo, è impossibile fare fronte alle sfide di domani con le regole di ieri. La fase che si è aperta con la crisi ucraina richiede impegni senza precedenti per finanziare investimenti pubblici di livello europeo e, con essi, per inaugurare una nuova governance economica, nel tentativo di rispondere al più presto, e meglio, a un ordine geopolitico che si è completamente capovolto nel giro di poche ore. Non è un caso che alla vigilia del vertice che si apre oggi a Versailles il dibattito sugli eurobond, in primis per finanziare le spese energetiche, sia tornato centrale.

Pensavamo al 2022 come all’anno in cui l’Unione europea avrebbe messo un punto fermo su quanto acquisito con le riforme di governance innescate dall’emergenza pandemica. Immaginavamo un lento e graduale ritorno alla nuova normalità post-Covid, sociale e finanziaria. Non sarà così. L’anno in corso potrebbe, infatti, trasformarsi nell’ennesimo nuovo capitolo per il futuro della Ue, costretta dalla terribile circostanza della guerra, per la seconda volta in soli due anni, a dover aumentare la propria spesa pubblica e a ricorrere a un maggior livello di indebitamento, proprio con l’emissione di eurobond. Perché, con lo scoppio del conflitto in Ucraina, è evidente che saranno necessari investimenti ingenti per finanziare beni pubblici europei in grado di garantire l’autonomia strategica dell’Unione: dal rafforzamento della capacità militare, alla sicurezza delle forniture di energia; dalla costruzione di infrastrutture necessarie per assicurare l’indipendenza del mix energetico, all’approvvigionamento di materie prime o componentistica fondamentale per le catene del valore (ad esempio: microchip, semiconduttori, batterie e materie rare) e per le drammatiche condizioni di milioni di profughi ucraini che stanno lasciando il loro Paese. I cittadini dell’Ue hanno, ormai, capito che i rischi geopolitici, siano essi militari, energetici, sanitari o tecnologici, devono essere affrontati su scala europea e non più a livello nazionale, inadatto ad affrontare le conseguenze di una guerra scoppiata al confine orientale europeo e, più in generale, le nuove sfide globali.

In tale contesto, la Commissione europea ha recentemente pubblicato le linee guida di bilancio per il 2023. Dalla lettura del documento, molto probabilmente concepito prima dello scoppio della guerra, si evince che l’attenzione di Bruxelles è focalizzata, quasi esclusivamente, sull’analisi della dinamica dei debiti pubblici nazionali accumulati negli ultimi due anni e sulla riattivazione dei vincoli di bilancio sospesi nel 2020 per effetto della general escape clause. La percezione che se ne ricava è quella che lo scoppio della guerra abbia, in seguito, costretto la Commissione a rivedere parzialmente il documento, prima di renderlo pubblico, preferendo tuttavia “congelare” momentaneamente il quadro di regole esistenti piuttosto che iniziare a progettare un nuovo cambio di paradigma: fornendo ai governi linee guida che rinviano, a maggio la scelta se prorogare ulteriormente o meno la general escape clause attualmente vigente fino a fine 2022, e a ottobre ogni decisione sulla riapertura delle procedure sui disavanzi eccessivi nel quadro del Patto di stabilità e crescita.

Ciò permetterebbe alla Commissione di guadagnare tempo prezioso per formulare una proposta di riforma della governance economica adattata al mutato scenario geopolitico, in un momento, lo ricordiamo, in cui i leader dell’Ue hanno avviato la discussione sulla riforma del Patto di Stabilità e Crescita e, complessivamente, sulla nuova governance economica. Da un lato è evidente l’esigenza di utilizzare, nella maniera più flessibile, arrivando fino a prorogarli, tutti gli strumenti attivati dall’Unione negli ultimi due anni – come la sospensione del Patto, l’introduzione del Temporary framework sugli aiuti di Stato, l’introduzione del Ngeu, per il quale si rende necessario un aumento della dotazione finanziaria, dal momento che il valore dei progetti era stato calcolato ai prezzi del 2021, quando i tassi di inflazione erano ben al di sotto dall’attuale 5,8% – e il coordinamento tra le politiche di bilancio e la politica monetaria della Bce. Dall’altro, però, tutto questo non basta.

Non basta perché, così come è stato fatto, durante la pandemia, per i lockdown imposti dai governi con l’intento di garantire a tutti il bene pubblico “salute”, adesso, con le sanzioni alla Russia, abbiamo il dovere di adottare misure che correggano le distorsioni che le sanzioni stesse creano alla normale dinamica concorrenziale, per effetto della quale è il mercato a selezionare chi vince e chi perde. Nella crisi da pandemia, infatti, le regole della concorrenza sono state sospese per volontà diretta dello Stato e miliardi di euro sono stati stanziati nei bilanci pubblici sia per sostenere le imprese e i lavoratori europei in crisi sia per rilanciare le economie del Vecchio Continente. Specularmente, le sanzioni alla Russia si configurano come strumento per salvaguardare il bene pubblico europeo forse più prezioso – la pace in Europa – e per dimostrare la piena e totale solidarietà al popolo ucraino.

Dopo 70 anni di pace e prosperità in Europa è, altresì, ormai chiaro a tutti che l’Ue dovrà, d’ora in avanti, rivedere completamente le dimensioni, i modi e le sinergie relative alle spese per la propria difesa comune. I governi dell’Unione hanno, infatti, concordato di spedire mezzi militari a Kiev, e il Fondo europeo per la pace (istituito il 22 marzo 2021) acquisterà armi per 450 milioni di euro in favore dell’Ucraina, un acquisto collettivo che è il primo nel suo genere. Certamente, questo strumento va nella direzione giusta, quella di creare una difesa comune europea. Benché importante per l’alto obiettivo che si pone e, cioè, per preservare la pace, prevenire i conflitti e rafforzare la sicurezza internazionale, esso appare, indubbiamente, solo come un primo passo verso traguardi più ambiziosi.

Sappiamo bene che, per avere una vera politica europea di difesa comune, è necessaria una revisione dei Trattati, ma, in una prima fase di transizione, è auspicabile, se non addirittura improrogabile, un effettivo rafforzamento della cooperazione tra Stati in questo settore. Talmente elevata è la complessità, talmente alti gli oneri finanziari necessari per realizzare una politica industriale comune nel settore della difesa, che la sommatoria dei costi da sostenere per mantenere 27 difese nazionali sarebbe di gran lunga superiore a quella di avere un’unica difesa europea, e che i benefici derivanti da una strategia comune concordata a livello europeo sarebbero incommensurabilmente maggiori di quelli derivanti dal mantenimento di 27 strategie distinte.

Il modello teorico di riferimento è quello del “monopolio naturale” sviluppato negli anni Settanta dall’economista William Baumol, il quale afferma che, in alcuni settori industriali, la particolare struttura dei costi di produzione rende più efficiente una produzione fatta da un’unica impresa piuttosto che da una pluralità di imprese (il concetto matematico di subadditività delle funzioni di costo). Questo principio vale anche per la produzione dei beni pubblici di scala europea, dal momento che le reti energetiche, informatiche, di sicurezza, eccetera sono tutti esempi di monopoli naturali caratterizzati da elevate economie di scala e rendimenti di scala crescenti, oltre che da funzioni di costo subadditive.

Benefici che, dunque, per l’Unione europea non sarebbero solo economici ma, soprattutto, geopolitici. Ne deriverebbe, per questa via, un più forte ruolo strategico che un’unione della difesa assumerebbe nello scacchiere globale. Anche i più grandi Paesi dell’Ue, come la Germania, la Francia e la stessa Italia, se presi singolarmente, si configurano soltanto come potenze regionali, in rapporto a superpotenze quali gli Stati Uniti, la Cina o la stessa Russia. Altra cosa è, invece, l’Unione europea considerata nel suo insieme. L’Ue su questo tema non è all’anno zero: nonostante molto resti ancora da fare, esistono già collaborazioni, consorzi e accordi a geometria variabile tra Paesi membri.

In quest’ottica deve essere letto, ad esempio, lo storico cambio di passo deciso recentemente dalla Germania del neocancelliere Olaf Scholz, il cui governo ha deciso di stanziare la cifra monstre di 100 miliardi di euro per la propria difesa nel bilancio 2022. Una scelta audace e rivoluzionaria, quella tedesca, proprio perché adottata da un Paese la cui eredità della Seconda guerra mondiale aveva impedito per decenni di ricreare una potenza militare, ma che ora può fare da apripista a un’iniziativa da coordinare a livello europeo. Altri Paesi, infatti, stanno seguendo il modello tedesco. L’Olanda, ad esempio, si è impegnata in un programma finanziario volto ad aumentare la spesa relativa alla difesa, in maniera da farla convergere verso gli obiettivi concordati in sede Nato.

A parte la difesa comune, è possibile che il conflitto in Ucraina possa accelerare anche le iniziative per coordinare a livello europeo la spesa dei singoli Stati, per finanziare i costosissimi progetti necessari per assicurare l’indipendenza energetica, quali l’approvvigionamento e lo stoccaggio comune di fonti energetiche tradizionali e alternative. Progetti il cui costo è talmente elevato, nell’ordine di grandezza delle centinaia di miliardi di euro, che meglio possono essere sostenuti a livello Ue, attraverso un potenziamento del suo bilancio, sul modello dei fondi creati con il Ngeu e, quindi, attraverso l’indebitamento sui mercati tramite eurobond.

Ancora più urgente è, poi, l’accoglienza dei milioni di cittadini profughi ucraini che stanno scappando dal proprio Paese verso gli Stati dell’Ue. Una prima intesa tra i ministri dell’Interno dei 27 garantirà una protezione temporanea, ma il flusso – parliamo di 800mila profughi attesi solo per l’Italia – va organizzato e gestito.

Come abbiamo visto, la crisi ucraina, con i suoi già dolorosi risvolti civili e i rischi di destabilizzazione dell’ordine mondiale, chiama l’Europa a una responsabilità decisiva in difesa della pace e della libertà dei popoli, e rende indifferibile e urgente un’accelerazione nel processo di costruzione compiuta del progetto federale, di cui un’autentica politica economica unitaria, una difesa comune e una politica energetica coordinata sono pilastri fondamentali.

L’occasione richiede una riforma della governance economica che tenga in considerazione un approccio olistico e unitario e che preveda una riforma delle regole di bilancio europee in chiave evolutiva rispetto al quadro normativo attuale, che crei adeguati spazi di bilancio necessari al finanziamento degli investimenti in beni pubblici europei sul modello Ngeu, finanziato attraverso nuove risorse proprie di bilancio dell’Unione e l’emissione di eurobond.

Subito dobbiamo permettere l’entrata in vigore dell’accordo modificativo del Trattato che istituisce il Meccanismo europeo di Stabilità (Mes) al quale affidare proposte concrete per un utilizzo dei suoi fondi in funzione di stabilizzazione anti-ciclica, al fine di creare uno strumento comune per la gestione delle conseguenze della guerra in Ucraina.

Per affrontare la crisi pandemica da Covid-19, dal 2020 in poi, l’Unione europea ha messo in campo strumenti eccezionali. Ora serve lo stesso coraggio di allora, la spinta evolutiva che nasce dalla perturbazione. Adesso serve un Next Generation Eu 2 per l’hard power e l’autonomia strategica della Ue, ma, più di ogni altra cosa, serve un grande investimento in fiducia e inclusione. Certamente bene, in questa fase, i Consigli europei di consapevolezza, contrasto e sanzione. Ma non basta una pace qualsiasi, né una pace “contro”. Occorre lavorare fin da ora a una pace “per”. Una pace per ricomporre quella casa comune europea che era cinquant’anni fa al centro degli atti di Helsinki, una pace per giungere a un disarmo autentico, come quello che ci portò, 35 anni fa, a rimuovere gli euromissili e gli SS20, una pace per recuperare lo spirito di Pratica di Mare e quella spinta propulsiva che venne incanalata in istituzioni comuni, come il Consiglio Nato-Russia. Serve un sogno, un’utopia, forse una follia. Un nuovo orizzonte, con nuove leadership a Mosca: tutti nella Nato, tutti nell’Unione europea. Di fronte a fatti mai visti, servono pensieri mai fatti.