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R.BRUNETTA (Intervento su ‘La Stampa’): “Produttività, salari e crescita: è l’ora di un patto sociale europeo”

 

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L’Europa è a un bivio della storia. Ce lo ha ricordato il presidente Mattarella, descrivendo un Vecchio Continente in mezzo al guado, stretto tra il rischio di “una regressione” e “la capacità di sopravvivere ai mali del proprio passato e di superarli definitivamente”. È da qui che dobbiamo partire per analizzare il nostro presente: due anni di pandemia, una crisi sociale ed economica da superare, una guerra imprevista che rievoca i peggiori incubi del Novecento, nuove sfide da affrontare con tempestività e responsabilità: l’indipendenza energetica, la sicurezza e la difesa comune.

La lezione del biennio 2020-2022 è che non c’è interesse nazionale fuori dall’Ue, non c’è sovranità possibile, se non europea. Per questa ragione, le questioni economiche cruciali che agitano il dibattito pubblico in Italia – il lavoro, i salari, il potere d’acquisto, l’inflazione, la crescita – devono essere affrontate con uno sguardo bifronte: all’interno, certamente, ma anche e soprattutto all’Europa. Senza semplificazioni, scorciatoie e opportunismi ideologici.  Nel segno della coesione sociale e di un nuovo patto tra Governo, imprese e sindacati. Come accadde con il protocollo Ciampi del 1993.

 

L’emergenza salariale, oltre i dualismi

Nessuno nega l’esistenza di una emergenza salariale, evidente già prima della pandemia e del conflitto russo-ucraino. Nella incerta fase attuale – come ho evidenziato con Michele Tiraboschi nel saggio “Salari e nuova questione sociale: la via maestra delle relazioni industriali” appena pubblicato su Adapt – il dibattito italiano si è irrigidito su due posizioni, che prospettano soluzioni opposte e inconciliabili. Da un lato si propone, a fronte della crescita dell’inflazione e della perdita del potere di acquisto da parte dei lavoratori, un generalizzato aumento dei salari a carico delle imprese, come “corrispettivo” di un nuovo impegno dello Stato a sostenere il sistema produttivo. Dall’altro si risponde che il sistema delle imprese è già pesantemente colpito dalla crisi energetica e dagli aumenti dei costi di produzione derivanti dalla difficoltà di approvvigionamento delle materie prime e, pertanto, non dispone di risorse per erogare aumenti salariali.

Incuranti dei fallimenti del passato, che ancora oggi pesano sulle prospettive di sviluppo e tenuta sociale, entrambi gli schieramenti hanno un solo punto in comune: la proposta di maggiore spesa pubblica, e dunque di soluzioni a carico dello Stato e delle future generazioni, senza peraltro indicare le relative coperture. La divisione radicale tra i due orientamenti sta solo nell’individuazione dei beneficiari: i lavoratori o le imprese.

 

Il nodo della produttività

Nel 2020 le retribuzioni stabilite dalla contrattazione nazionale hanno continuato a crescere molto lentamente: +0,7% su base tendenziale nel settore privato non agricolo e +0,6% nel complesso dell’economia. Un problema ormai cronico, di cui sono ben note le possibili soluzioni. Nel medio periodo i salari reali si possono alzare soltanto aumentando la produttività ed evitando che il valore aggiunto venga trasferito altrove. La comparazione con le dinamiche salariali di Paesi come Francia e Germania mostra chiaramente come negli ultimi decenni la produttività italiana non sia cresciuta, diversamente da quanto avvenuto di là dalle Alpi. Prima della crisi pandemica, tra il 2000 e il 2020, la produttività era aumentata solo dello 0,33% in media all’anno nel nostro Paese, contro l’1% in Germania e lo 0,94% in Francia.

In Italia, grazie alla contrattazione collettiva, i salari nominali sono cresciuti parallelamente all’inflazione, con salari reali invariati nonostante nessun aumento di produttività.  La stagione eccezionale che viviamo ha aumentato le vulnerabilità e le situazioni di disagio anche per chi ha un’occupazione. A queste persone non si può rispondere solo in termini di fredda razionalità economica. Le forzature, però, non servono, men che mai un muro contro muro tra Governo e attori sociali che disperde il bene più prezioso nelle situazioni di emergenza: quello della coesione sociale. Occorre un metodo condiviso che unisca economico e sociale dentro un disegno unitario, capace di contenere dentro un unico percorso le inevitabili misure di tipo emergenziale con misure di medio e lungo periodo in grado di dare risposte strutturali e durature, in linea con il Pnrr.


L’esigenza di un patto sociale

Ancora una volta è essenzialmente una questione di metodo e di buona politica, per tenere insieme crescita e giustizia sociale. Bisogna evitare che l’emergenza salariale e anche quella occupazionale, già segnalata dai numerosi tavoli di crisi, alimenti tensioni sociali. La diffidenza verso forme di concertazione vecchio stampo è comprensibile, ma è la storia del nostro Paese a dimostrare come le svolte epocali in economia – dalla fine della scala mobile alla partecipazione all’unione monetaria – siano avvenute attraverso assunzioni di responsabilità tra Governo e attori sociali.

Oggi serve un patto sociale basato su tre assi: sistema contrattuale, politica industriale e fiscalità. Il modello da seguire è quello del Protocollo Ciampi del 1993 che è riuscito ad agganciare e correggere alcune dinamiche dei processi di contrattazione collettiva ponendo fine alla stagione della “conflittualità permanente” e responsabilizzando per la prima volta la contrattazione collettiva, soprattutto al livello decentrato, rispetto alle istanze di efficienza e produttività e non solo a quelle, più tradizionali, di tipo distributivo. Questo modello, invecchiato rispetto alle proposte, è però ancora attuale nel metodo, e lo dimostra quanto avvenuto nel lavoro pubblico con il Patto per l’innovazione e la coesione sociale sottoscritto il 10 marzo dello scorso anno con Cgil, Cisl e Uil e che ora sta trainando positivamente i rinnovi contrattuali del settore.

 

L’equivoco del salario minimo

La correlazione tra lavoro povero e legge sul salario minimo banalizza un problema reale, che è quello delle attività senza contratto o senza mercato. Chi mal cita la bozza di direttiva europea sul tema dimentica di sottolineare come il testo non vada nella direzione di imporre un salario minimo legale o di rendere efficaci erga omnes i contratti collettivi. Certo non lo esclude, ma si riferisce chiaramente ai Paesi con basso tasso di copertura della contrattazione collettiva. Non è il caso del nostro. Poiché il salario minimo non affronta il nodo dei bassi salari derivanti dalla bassa produttività, la misura applicata in Italia finirebbe per ridurre l’occupazione, almeno l’occupazione regolare.

 

I possibili interventi, dal taglio del cuneo alla partecipazione

La riduzione strutturale del cuneo fiscale e contributivo è, al contrario, un obiettivo da perseguire, per esempio attraverso una detassazione semplificata di tutte le indennità (lavoro notturno o festivo e prefestivo) e di tutti i premi definiti da accordi aziendali o interaziendali (filiere e territori), in modo tale da incidere positivamente sulla produttività senza alimentare inflazione. Chi condivide queste scelte di spesa ha, tuttavia, il dovere di indicare le coperture. Il tema delle risorse, necessariamente sul tavolo del patto sociale, impone a maggior ragione di attuare urgentemente e coerentemente la riforma del reddito di cittadinanza contenuta nella legge di bilancio per il 2022, a partire dal coinvolgimento delle agenzie private del lavoro, con l’obiettivo di evitare inefficienze e disincentivi all’impiego.

In questo scenario appaiono ragionevoli misure tampone a tutela del potere d’acquisto dei lavoratori, come un intervento sull’extragettito non solo delle società energetiche, ma anche sull’Iva, immaginando, per esempio, una riduzione su un paniere di beni di prima necessità a favore delle fasce più deboli.

Nel medio periodo la via maestra per aumentare la produttività resta il rilancio della contrattazione di secondo livello e la connessione tra salari e andamento di impresa. L’eccezionalità del momento che viviamo suggerisce, inoltre, di intervenire in modo deciso sul welfare aziendale. Una soluzione ottimale per abbattere il cuneo fiscale, perché, per definizione, non è reddito da lavoro.

Tra le forme di decontribuzione per le imprese si potrebbe, invece, ampliare la sperimentazione avviata in passato sulle forme di partecipazione dei lavoratori. Tema che, assieme a una rivisitazione degli assetti contrattuali, ben potrebbe essere oggetto dell’auspicato patto sociale con una successiva legislazione (non divisiva, come quella sull’articolo 39) di attuazione dell’articolo 46 della Costituzione, con un focus specifico su forme di partecipazione economica dei lavoratori, ossia meccanismi di profit sharing e gain sharing di cui la contrattazione di produttività è un esempio.

 

Patto sociale come bene pubblico europeo

Torniamo all’Europa. La strada di un nuovo patto sociale per migliorare le condizioni di lavoro e il funzionamento dei mercati del lavoro europei si inserisce nel quadro di riforme costruito dall’Unione durante la pandemia, con la messa in campo dei 750 miliardi di euro del Next Generation EU, e deve rappresentare la cornice entro la quale inserire gli interventi del Pnrr.

Un nuovo patto sociale, dunque, che sostenga le innovazioni e le transizioni necessarie – amministrativa, digitale, ecologica – per raggiungere un maggior livello di produttività e di crescita, a livello italiano ed europeo, e che favorisca il progetto di integrazione. Tutto sulla scia di un nuovo europeismo, incarnato dalla proposta di revisione del Patto di stabilità avanzata dai presidenti Draghi e Macron sul Financial Times, capace di superare il quadro di regole e parametri rigidi attualmente in vigore, non più adatti ad affrontare le sfide di una società profondamente diversa da quella degli anni Novanta. La nuova Europa nata con il Next Generation EU potrebbe rafforzarsi già a breve, sulla scia del Consiglio europeo informale di Versailles del 10-11 marzo, promuovendo un secondo Ngeu per finanziare gli investimenti necessari a dotare l’Unione di una più forte autonomia strategica, sia in campo energetico sia in campo militare. Un patto sociale per più crescita, più produttività, più salari e più coesione sociale si configura, oggi, come un bene pubblico europeo. Un gioco a somma positiva, vantaggioso per tutti, che al bivio della storia impedisca all’Europa di imboccare la via della regressione e permetta, invece, di superare definitivamente i mali del passato. Insieme.