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R.BRUNETTA (Intervista a ‘Il Sole 24Ore’): “No al salario minimo per legge”

 

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“Il salario minimo per legge non è la soluzione, è un errore. Mortifica la contrattazione, che è il cuore pulsante dei rapporti sindacali nel nostro Paese”. Renato Brunetta, ministro per la Pubblica amministrazione ed economista del lavoro, è netto. Dal Teatro sociale di Trento, uno dei luoghi simbolo del Festival dell’economia, non usa mezze misure per bocciare l’idea di uno strumento legislativo per determinare la remunerazione minima del lavoro.

Ursula von der Leyen ha parlato più volte di salario minimo e i suoi sostenitori in Italia ora lo rivendicano come obiettivo europeo.

Ecco un altro errore. Le indicazioni europee tengono sempre conto del peso che nei diversi Paesi ha la contrattazione. I contratti nazionali di lavoro sono il perno della distribuzione salariale in Italia, ma anche nel Nord Europa, e l’Unione europea, quando fa riferimento al salario minimo, mantiene sempre la salvaguardia dei risultati contrattuali. Vogliamo essere più tecnici? La proposta di direttiva europea, che sarà discussa al prossimo Consiglio Occupazione del 16 giugno, non obbliga ad andare nella direzione di un salario minimo stabilito per legge e neppure impone, in alternativa, di dotare i contratti collettivi di efficacia erga omnes con una legge sulla rappresentanza. Che è la tesi sostenuta da alcuni per dare attuazione all’articolo 39 della Costituzione. E, tuttavia, questo non esclude iniziative in tal senso, dove un rituale richiamo al ruolo del dialogo sociale precisa che servono oggi «adeguati meccanismi per la determinazione dei salari minimi», come a dire che la contrattazione collettiva non svolge a pieno questo ruolo in Italia. Ed è qui – come ho evidenziato a inizio maggio in un working paper Adapt con Michele Tiraboschi _ che è possibile individuare il principale nodo politico sollevato dalla proposta del salario minimo per legge, e cioè se il metodo delle relazioni industriali, che affida all’istituto della contrattazione il compito di determinare il valore economico di mercato dei mestieri nei diversi settori produttivi, sia superato e da abbandonare. O se invece il vero problema sia altro, in parte interno alla mancata riforma delle dinamiche intersindacali (i livelli di contrattazione e il nodo della produttività) e in parte condizionato dal troppo elevato cuneo fiscale, da una estesa area di economia sommersa, dal dilagare di forme di lavoro senza contratto (tirocini extracurriculari in primis) e dal proliferare di accordi sottoscritti da attori non rappresentativi, almeno se comparati a quelli firmati da Confindustria e da Cgil, Cisl e Uil per il settore industriale.

Però esiste una questione salariale, soprattutto per le fasce deboli fuori dai contratti nazionali. Come si risolve?

Non con il salario minimo generalizzato per legge. Non è così che si risolverebbe il problema del lavoro sommerso, del lavoro di cura o quello dei giovani senza contratto, che sono solo alcune delle tipologie dell’area di criticità e di disagio sociale vero. Sul punto specifico, potrebbe servire una legislazione di sostegno concordata con le parti sociali. Ciò che è importante sottolineare è che il salario minimo per legge finirebbe per distruggere lo strumento che imprese e lavoratori hanno costruito nel tempo per governare attivamente i processi economici e il mercato del lavoro. Ad essere indebolito sarebbe non solo il sindacato, e cioè l’attore che si fa carico di tutelare il potere di acquisto dei lavoratori, ma la stessa parte sana e genuina delle imprese, che affronta la sfida della competizione non sul versante dei costi e dei prezzi, ma su quello degli investimenti, dell’innovazione e regolazione della concorrenza, evitando comodi fenomeni di giochi al ribasso che già esistono fuori e dentro il confine nazionale.

Lei ha evidenziato come la questione salariale esista a prescindere dalla fiammata inflazionistica recente. Come ha sottolineato il Governatore della Banca d’Italia, va ora evitata <la vana rincorsa prezzi-salari>. Come andrebbe articolata una nuova stagione di politica dei redditi?

Ho nostalgia dell’accordo del 1993 del Governo Ciampi _ alla cui stesura, tra l’altro, ho contribuito da giovane economista _ ma non dell’obiettivo di <moderazione salariale> che quell’intesa presupponeva. Oggi non è questo il tema, evidentemente, perché lo scopo è più alto e più complesso: il nostro stare in Europa non più come l’ultima ruota del carro. Di quell’intesa sulla cosiddetta concertazione dobbiamo recuperare il metodo, il dialogo fattivo tra Governo e parti sociali.

Quella stagione, però, ha generato forme di consociativismo che hanno snaturato il valore del dialogo, facendo prevalere forme di diritto di veto che hanno bloccato alla fine il raggiungimento di risultati utili.

La diffidenza verso forme di concertazione sociale vecchio stampo _ e verso le distorsioni nate dopo il ’93 _ è comprensibile e anche condivisibile. È però la storia del nostro Paese a dimostrare come le svolte epocali in economia – dalla fine della scala mobile alla partecipazione all’unione monetaria – siano avvenute attraverso patti sociali.

A proposito di scala mobile, lo sa che alcuni, soprattutto nel mondo dei 5 Stelle, stanno pensando alla reintroduzione di una nuova forma di automatismo, una scala mobile 2.0?

È un altro errore. Basta riandare agli studi preparatori dell’intesa del ’93: ormai era chiaro come la scala mobile avesse portato al risultato opposto a quello cercato. La spirale prezzi-salari era diventata un congegno infernale che, unito alle distorsioni del cosiddetto fiscal drag, portava soltanto alla riduzione dei salari reali, con un impatto devastante soprattutto sulle fasce più deboli del mercato del lavoro. Pensare di riportare l’Italia in quell’inferno è solo una follia.Tragica follia che allora, nel 1985, portò le Brigate Rosse ad ammazzare barbaramente Ezio Tarantelli.

Torniamo ai patti sociali. Lei, da ministro perPubblica amministrazione, ha firmato un accordo con i sindacati del settore il 10 marzo del 2021. Cosa ha sortito quell’accordo?

Il Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale è stato il primo grande successo del Governo Draghi, che ha trainato positivamente i rinnovi contrattuali e accompagnato la riforma del pubblico impiego prevista dal Pnrr. È stata la dimostrazione che il metodo Ciampi del ’93 è ancora valido, anche se, dopo quasi trent’anni, i contenuti vanno adattati. Quell’intesapose fine alla stagione della conflittualità permanente,responsabilizzando per la prima volta la contrattazione collettiva, soprattutto al livello decentrato, rispetto alle istanze di efficienza e produttività e non solo a quelle, più tradizionali, di tipo distributivo. Di patti come questo sentiamo ancora un grande bisogno. Oggi, in una discussione generale su un nuovo patto sociale di politica dei redditi, dovrebbero entrare i temi del controllo delle tariffe, dell’armonizzazione tra lavoro pubblico e lavoro privato, della rivisitazione della spesa pubblica destinata finora ai bonus, della riforma fiscale da cui potrebbero provenire nuove importanti risorse peraumentare le buste paga. Tutto in chiave di competizione europea.

Pensa al cuneo fiscale e alla necessità di ridurre la distanza tra salario netto e costo del lavoro pagato dall’impresa?

Certo, ma non solo. Penso anche all’extragettito Iva che lo Stato incassa con l’aumento dei prezzi generalizzati dei beni. Perché non destinare quel sovrappiù fiscale per ridurre (o tenere controllate) le aliquote su un paniere di beni di prima necessità e di largo consumo? Sarebbe uno strumento indiretto, ma molto efficace, per tutelare le fasce più deboli. E, soprattutto, contribuirebbe a evitare la vituperata spirale prezzi-salari. Ma la stagione che viviamo impone di affiancare a misure emergenziali, pur necessarie, interventi di medio e lungo periodo, con una visione che aiuti a non sprecare le scarse risorse disponibili e a non indirizzarle nella direzione sbagliata. Occorrono metodo e buona politica. Una politica economica capace di tenere assieme crescita e giustizia sociale non è un lusso che non possiamo permetterci e tanto meno sarebbe una generosa concessione alsindacato. Il clima di fiducia che il Governo ha saputo creare, e che è decisivo per la crescita, non deve essere messo a rischio da forme di conflittualità sociale. Occorre assolutamente evitare che l’emergenza salariale e anche quella occupazionale, già segnalata dai numerosi tavoli di crisi e da singole vertenze aziendali giunte con clamore alla attenzione della opinione pubblica, alimenti tensioni.

Niente moderazione salariale, ma niente spirale prezzi-salari. Come si fa a muoversi in questa strada stretta?

Va detto con chiarezza: è sicuramente giunto il tempo di archiviare definitivamente la stagione della moderazione salariale, tanto nel pubblico che nel privato, ma a condizione di agganciare davvero la contrattazione collettiva alle dinamiche della produttività, in una prospettiva di reale partecipazione e di condivisione dei risultati. Sono le stesse sfide e i rischi della transizione digitale ed ecologica a imporre oggi un nuovo patto sociale incentrato sulle competenze, la formazione e la riqualificazione professionale mediante una maggiore e più convinta integrazione tra il sistema educativo, la formazione professionale e il mercato del lavoro, in modo da rispondere tempestivamente e in manieraproattiva alle continue transizioni occupazionali e ai nuovi bisogni di protezione sociale. Di questo si parla da anni ma è sin qui stato sovraccaricato unicamente il segmento pubblico (il sistema di welfare, la scuola e i centri per l’impiego), dimenticando il ruolo centrale dei sistemi di relazioni industriali, a livello di settore e soprattutto a livello di prossimità, nel riscrivere i sistemi di classificazione e di inquadramento del personale che governano i criteri di misurazione del valore economico e di scambio del lavoro condizionando l’organizzazione del lavoro, i percorsi di carriera e le dinamiche della produttività.

È anche il tempo di rivedere il reddito di cittadinanza?

Esiste sempre un tema di risorse pubbliche quando si parla di patto sociale. Per questo occorre attuare a pieno e senza indugi la riforma del reddito di cittadinanzaapprovata nella legge di bilancio per il 2022 e in gran parte ancora da attuare. Bisogna evitare sprechi, inefficienze e disincentivi a percorsi di partecipazione attiva al mercato del lavoro. Di questi tempi non possiamo permetterceli.

Sono tempi di incertezza, di tempeste perfette tra inflazione, shock dell’offerta con l’interruzione delle catene del valore e prezzi delle materie prime impazzite. Oscilliamo tra l’idea di una recessione possibile, ma forse non prevedibile. Per lei quali sono le caratteristiche di questa crisi?

Lo dico chiaro: al momento, la crisi economica non c’è. Il Pil del primo trimestre è stato corretto al rialzo: +0,1%. Se anche il prossimo trimestre sarà ancora positivo _ e a me risulta che sia in atto un grande fermento di ripartenza _ andremo verso un +3% sull’anno, perché la crescita acquisita è già al 2,6 per cento. La manifattura ha avuto una performance eccezionale nel 2021, che in gran parte continua e si vede dai dati dell’export. E ora anche i servizi sono ripartiti con vigore. Se ben ricordo l’etimologia greca, crisi vuol dire scelta, punto di svolta: viviamo nel mezzo di grandi cambiamenti, questo è indubbio. Dobbiamo fare delle scelte. Non mi sfugge quale sia la tragica realtà della guerra in Ucraina, che ci ha riportato a un inimmaginabile Medioevo. Ma non mi sfugge nemmeno che, più la situazione bellica diventa complessa, più aumentano i trade off e i pay off, gli scambi e i dividendi. Ce lo insegna la teoria dei giochi. Per esempio, la vicenda del grano è certamente una complicazione della crisi ma, potenzialmente, fornisce anche una possibile via d’uscita. E lo vedremo presto. Per Putin stanno aumentando i costi della guerra e venendo meno i potenziali benefici. L’orizzonte temporale è la chiave.

Lei, come economista del lavoro, studia da sempre il mismatch italiano tra domanda e offerta. Le imprese cercano qualifiche legate all’innovazione e non le trovano; quelle che cercano i profili a minor valore aggiunto spesso incontrano candidati troppo qualificati o denunciano di essere spiazzate dal reddito di cittadinanza. E anche nella Pa ci sono segnali di minore attrattività del posto pubblico. Che sta succedendo? E come se ne esce?

Nessuna crisi sui concorsi per il lavoro pubblico,semplicemente un aumento esponenziale e improvviso delle opportunità di accesso. Dopo vent’anni di blocco del turnover, da giugno 2021 sono ripartiti i concorsi, che abbiamo non solo riavviato, ma anche digitalizzato e velocizzato. Oggi non durano più fino a quattro anni, ma 100 giorni dal bando alla pubblicazione delle graduatorie. I giovani possono fare concorsi multipli e, se vincitori, scegliere. Questo non mi sembra un male. Quello su cui stiamo lavorando è l’attrattività della Pubblica amministrazione, non più settore rifugio, a bassa produttività e a basso reddito, ma motore dell’intera economia italiana. Da qui tutti i necessari investimenti in formazione, digitalizzazione, merito, carriere. Per quanto riguarda il settore privato, non basta il mercato, come abbiamo visto, ma abbiamo bisogno di una strategia di più lungo periodo, che riparta dalla scuola, dai licei agli istituti tecnici, all’università, con un’attenzione privilegiata alle discipline Stem (scienze, tecnologie, ingegneria, matematica), indispensabili per sostenere le transizioni. E ancora: mobilità, Erasmus, scambi di specialisti, utilizzando tutti i modelli più avanzati di reclutamento a scala globale. Come LinkedIne il nostro inPA, il portale della Pubblica amministrazione. Gli obiettivi di un nuovo patto sociale ce li abbiamo già: sono l’“agenda Draghi”, il Pnrr dentroNext Generation Eu. Il contratto con l’Europa non finisce con la conclusione di questa legislatura, ma ha un orizzonte almeno fino al 2026. La credibilità e la reputazione conquistata dal nostro Paese, grazie al riformismo con i piedi per terra di questo Esecutivo, è un valore da non disperdere, da non buttare via. Sono sicuro che gli italiani ne sono perfettamente consapevoli, nonostante cattive narrazioni e balordi talk show, e che, a tempo debito, sapranno fare le scelte giuste.