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R.BRUNETTA (Intervento su ‘Il Corriere della Sera’): “Sul salario minimo un grande malinteso. Le soluzioni sono altre”

 

RB Corriere della Sera

 

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Ci ricordava Charles Baudelaire che “il mondo cammina solo attraverso il malinteso. È attraverso il malinteso universale che tutti si accordano. Poiché se, per disgrazia, ci si comprendesse, non ci si potrebbe mai accordare”. Sul “salario minimo per legge” abbiamo assistito per giorni a un grande malinteso, che, però, proprio come sosteneva il poeta francese, lascia già intravedere la strada per trovare l’armonia.

Nel dibattito pubblico, sono state mescolate tre questioni che, invece, devono restare distinte: la criticità strutturale dei salari italiani, legata a bassa produttività e bassa crescita; le misure per i cosiddetti “working poor” e il fenomeno dei contratti “pirata”; gli interventi per contrastare la riduzione del potere d’acquisto dei salari per effetto dell’inflazione in aumento.

L’accordo in sede Ue sulla direttiva sui salari minimi adeguati è stato brandito da alcuni, anche in seno alla maggioranza, come la prova della necessità di un salario minimo legale, equivocando sia il senso della direttiva, sia l’idoneità dello strumento a “curare” i tre mali illustrati sopra.

Innanzitutto, la direttiva salvaguarda i Paesi, come l’Italia, in cui la determinazione dei salari per una quota superiore all’80% dei lavoratori è garantita dalla contrattazione collettiva, esentandoli dall’obbligo di introdurre un salario minimo legale. Si è fatto ricorso a due luoghi comuni per mettere il nostro sistema di contrattazione sotto accusa. Il primo riguarda la frammentazione, in base ai dati dell’archivio Cnel: su 1.000 contratti depositati, sono solo 419 i contratti collettivi nazionali effettivamente utilizzati e appena 162 quelli sottoscritti da Cgil-Cisl-Uil. Ma – questa è l’omissione grave – questi 162 accordi coprono 12,5 milioni di lavoratori dipendenti, pari al 97% del totale dei 12,9 milioni di rapporti di lavoro dichiarati nelle comunicazioni Uniemens all’Inps.

È la prova della sostanziale tenuta del sistema di contrattazione collettiva governato da Cgil-Cisl-Uil, che marca la differenza tra l’Italia e il resto dei Paesi di area Ocse, dove nel 2017 appena il 32% dei lavoratori risultava coperto da un accordo collettivo. Il “modello” italiano di relazioni industriali è, non a caso, quello che implicitamente la direttiva suggerisce di estendere, invitando gli Stati membri a rafforzare la contrattazione. In questo senso, la direttiva nulla impone al nostro Paese. Perché un buon contratto vale molto più di una tariffa minima oraria.

Il secondo luogo comune è quello per cui l’esistenza di “paghe da fame” tra i 3 e i 4 euro lordi l’ora giustificherebbe l’introduzione del salario minimo per legge. Anche in questo caso è indispensabile un’operazione verità. Lo studio sistematico dei trattamenti minimi retributivi previsti dai contratti collettivi nazionali indica che siamo di gran lunga sopra queste cifre in tutti i settori, eccetto il caso peculiare del lavoro domestico. Un’eventuale legge sui minimi retributivi, attestata anche sui 9 euro lordi, potrebbe comportare una fuga dal sistema di contrattazione collettiva, perché decisamente più oneroso per le imprese e i datori di lavoro. Conviene?

Inoltre il problema, serissimo e documentato, del lavoro povero dipende da altri fattori che non sarebbero affatto risolti dal salario minimo legale: il dilagare del lavoro nero, dei finti tirocini, del lavoro occasionale e delle finte partite Iva, nonché l’anomalia del lavoro autonomo professionale di nuova generazione a cui non si applicano i contratti collettivi. Da ripensare sono anche le condizioni di continuità del reddito di lavoratori a termine e i trattamenti dei lavoratori part time, soprattutto donne e giovani.

Sgombrato il campo dalle visioni ideologiche ed elettoralistiche e abbandonato il feticcio del “salario minimo per legge” anche da parte di autorevoli esponenti del M5S, è ormai chiaro a tutti come sia più semplice convergere attorno alle possibili soluzioni, come dimostra l’atteggiamento, sempre equilibrato, tenuto dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando.

Le richiamo sinteticamente.

Per arginare il fenomeno del dumping contrattuale, basterebbe incrementare i controlli ispettivi a legislazione vigente, a partire dalla robusta circolare dell’Ispettorato del lavoro n. 3/2018 che già contiene precise strategie e indicazioni.

Per incrementare in misura generalizzata i livelli retributivi di tutti i lavoratori italiani, occorre dare effettività alla centralità del livello aziendale e decentrato e insistere con la detassazione del salario variabile e la decontribuzione del salario di produttività, meccanismi incentivanti funzionali all’obiettivo della crescita della produttività e dell’introduzione delle innovazioni necessarie a rilanciare la competitività delle imprese.

Nella crescita di produttività si devono reperire le risorse per abbattere il cuneo fiscale e aumentare le paghe nette dei lavoratori italiani.

Infine, per affrontare l’emergenza del calo del potere d’acquisto legato all’inflazione (che, lo ha appena ricordato il premier Draghi, “è prodotta da una serie di shock sull’offerta e non è frutto del surriscaldamento dell’economia”), il Governo continuerà a battersi nell’Ue per il price cap, il tetto al prezzo del gas utile a frenare l’aumento dei prezzi, e a tutelare famiglie e imprese dal caro bollette e dal caro carburanti, tutela per cui finora sono stati stanziati oltre 30 miliardi, anche ricorrendo agli extraprofitti delle società energetiche. Al vaglio c’è l’utilizzo dell’extragettito Iva, derivante dall’aumento generalizzato dei prezzi, per ridurre l’aliquota su un paniere di prodotti di largo consumo per le famiglie. Di certo, sono da escludere automatismi come la scala mobile: l’Italia ne ha già sperimentato gli effetti nefasti per i lavoratori in termini di rincorsa prezzi-salari. È importante, in questo quadro, anche assicurare la piena attuazione della riforma del reddito di cittadinanza, che permetterebbe di destinare risparmi importanti al taglio del cuneo e alle politiche attive del lavoro.

In sintesi, rinnovare i contratti, estendere l’applicazione dei contratti più diffusi, tagliare il cuneo, premiare la produttività.

La complessità, anche virtuosa, del mercato del lavoro italiano e la drammaticità di questo momento storico impongono responsabilità e coesione. Non altre rigidità, non slogan populisti, non derive stataliste, ma un grande patto sociale capace di migliorare le condizioni di lavoro nel nostro Paese. Il dialogo contro ogni malinteso.