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R.BRUNETTA (Intervento su ‘Huffington Post’): “La crisi energetica come una partita a scacchi. Cosa c’è da sapere perché sia l’Europa a vincere”

 

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LEGGI L’ANALISI

 

La guerra del gas si sta sempre più rivelando una partita di alto livello degna di un gioco in cui i russi hanno sempre eccelso: gli scacchi. E, dobbiamo ammetterlo, in questa partita è proprio la Russia che si è dimostrata abilissima, orientando l’offerta per spingere il prezzo a livelli insostenibili e massimizzare al contempo i ricavi. Potremmo dire che, in risposta alle sanzioni comminate dall’Europa per l’invasione dell’Ucraina, Mosca si è comportata e continua a comportarsi come il gatto con il topo: un fornitore che tormenta i suoi clienti, più deboli a causa della loro dipendenza.

Il vantaggio strategico della Russia, finora, è stato anche quello di conoscere alla perfezione i meccanismi di pricing, che l’Europa stessa si è data, e di saperli sfruttare al meglio. Meccanismi datati, di dubbia efficacia, che, in questa situazione di stress, stanno mostrando pericolosamente la corda. E mentre Mosca si rende imprevedibile, variando la quantità di gas da inviare al Vecchio Continente come e quando vuole, sulla base di pretesti di volta in volta diversi, e creando così quella incertezza di mercato che è linfa vitale per la speculazione, l’Unione europea sembra aver compreso soltanto negli ultimi giorni l’urgenza di cambiare schema. “I prezzi alle stelle dell’energia stanno ora mettendo a nudo i limiti del nostro attuale modello di mercato, che è stato sviluppato per circostanze diverse” (quelle assicurate per anni da un’economia di pace), ha riconosciuto lunedì scorso la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. “Per questo ora stiamo lavorando a un intervento di emergenza e a una riforma strutturale del mercato elettrico”.

Ai trader sono state sufficienti queste parole – insieme all’apertura della Germania a discutere del price cap e del decoupling, il disallineamento tra il prezzo dell’energia elettrica e quello del gas, sin da marzo caldeggiati dal Governo italiano, con il premier Mario Draghi e il ministro Roberto Cingolani – per far crollare i prezzi sotto i 300 euro al Mwh. A riprova del fatto che la strada è giusta. Ma alle parole devono seguire le azioni, perché gli investitori andranno a vedere le carte che calerà l’Europa. Il 7 settembre i rappresentanti degli Stati membri parteciperanno a un seminario sui diversi modelli di tetto al prezzo. Il 9 settembre è convocato il vertice straordinario dei ministri Ue dell’Energia, anche se le dichiarazioni del ministro tedesco dell’Economia Robert Habeck sulla necessità di cercare a livello europeo un approccio migliore del price cap per regolare i meccanismi di tariffazione dell’energia lasciano intendere che trovare un accordo non sarà semplice.

 

Le mosse della Russia e le risposte errate

Da giugno l’impennata dei prezzi è stata inesorabile. L’annuncio della russa Gazprom di ridurre i flussi dal gasdotto Nord Stream 1, uno dei principali snodi verso l’Europa, ha infatti prodotto un “salto di qualità nella percezione del mercato sulla effettiva capacità dell’offerta europea di stare al passo con la domanda”, come sostiene Gianclaudio Torlizzi, tra i principali osservatori del mercato delle materie prime. La mossa di Gazprom rappresenta l’ennesima conferma dell’azione di weaponization del mercato del gas messa in atto dalla Russia come risposta alle sanzioni occidentali. Azione che, almeno fino ad oggi, è andata soprattutto a vantaggio della bilancia commerciale russa. Le sanzioni, infatti, hanno creato un ulteriore shock al mercato energetico europeo, che già prima della guerra in Ucraina aveva assistito ad altre due crisi: una a ottobre e l’altra a dicembre 2021. E per Mosca la perdita di gettito da gas dovuta alla minor quantità venduta è stata più che compensata dall’aumento di gettito provocato dall’incremento del prezzo. I ricavi delle esportazioni di gas russo sono aumentati lo scorso maggio di ben 5 volte su base annua e di 3 volte a giugno. La riprova della estrema abilità della Russia nel calcolare l’elasticità del prezzo alla variazione dell’offerta.

L’Europa, al contrario, non si è dimostrata altrettanto astuta. Ha continuato a rispondere masochisticamente all’uso strumentale del gas da parte di Mosca con strumenti ordinari sul lato della formazione del prezzo, facendo finta che il mercato fosse operato ancora da soggetti industriali e non da qualcuno che ricorreva al gas come arma di guerra. In questo scenario, la pur soddisfacente attività di stoccaggio in atto in Europa (in Italia arrivata a oltre l’80%) non è apparsa ancora ai trader come sufficiente per allentare i timori di riduzione dell’offerta. Timori che, fino all’annuncio di von der Leyen, sono risultati evidenti, con il significativo aumento dei prezzi dei contratti scambiati al Title Transfer Facility di Amsterdam, aumento riguardante i contratti a breve termine (il contratto relativo al quarto trimestre ha ormai superato i 300 euro/Mwh) e a medio-lungo termine, con il contratto 2023 balzato a quasi 200 euro/Mwh.

L’escalation dei prezzi del gas si è poi riflessa sul mercato elettrico, dove all’aumento hanno contribuito altri fattori di restrizione dell’offerta, come la siccità, che ha prodotto una bassa generazione da fonte idroelettrica, nucleare (i reattori nucleari e le vasche di stoccaggio del combustibile esaurito devono essere costantemente raffreddate) e da carbone, tanto in Germania che in Italia. Nel nostro Paese almeno un paio di gigawatt da generazione termoelettrica sono risultati fuori uso perché la secca del Po ha scoperto le pompe di pescaggio dell’acqua di raffreddamento.

 

L’impennata dei prezzi e i limiti delle regole attuali

L’aumento dei prezzi dell’energia è un fenomeno antecedente lo scoppio della guerra in Ucraina. Ha infatti cominciato a verificarsi già nel 2021. La causa principale è da ricercarsi nell’impennata dei prezzi del gas a livello internazionale dovuta alla ripresa della domanda globale post-Covid. Inoltre, minori volumi di Gnl sono stati immessi nel mercato europeo. La combinazione di una offerta più limitata, una più lunga stagione di riscaldamento e condizioni metereologiche sfavorevoli alla produzione di energie rinnovabili (meno sole, meno vento) hanno così creato una anomala carenza di offerta. Anche il forte aumento dei prezzi Ets e le sanzioni sul petrolio russo hanno prodotto l’aumento del costo della generazione a carbone. L’altra principale causa dell’impennata dei prezzi dell’energia sembrerebbe da ricercare nel sistema di fissazione dei prezzi vigente a livello internazionale, che segue la regola del “prezzo marginale” (Spm).

Il sistema, in breve, funziona così, come spiegato dall’economista Carlo Stagnaro. Per ogni ora del giorno, il mercato costruisce una curva di offerta, ordinando gli impianti di produzione in ragione crescente dei loro costi marginali. Il prezzo di equilibrio riflette i costi marginali dell’ultima centrale che entra in esercizio per soddisfare la domanda e che, nella maggior parte dei casi, è alimentata a gas, la fonte più costosa. Quel prezzo si applica a tutte le offerte accettate in quella fascia oraria. L’impianto marginale copre solo i costi di esercizio e il suo profitto è praticamente nullo, mentre tutti gli altri produttori ottengono dei profitti, o più precisamente delle rendite “infra-marginali”, grazie alle quali recuperano i costi fissi.

Il problema di questo sistema di pricing è dovuto al fatto che molti Paesi europei hanno ancora bisogno dei combustibili fossili per soddisfare il loro fabbisogno energetico. Di conseguenza, il prezzo dell’energia è ancora fortemente dipendente dal prezzo del gas naturale. Se il prezzo del gas lievita, anche i prezzi dell’intero mercato energetico lievitano. Le fonti rinnovabili hanno, a differenza del gas naturale, costi marginali praticamente nulli. Viceversa, hanno elevati costi di investimento. Di conseguenza, quando le rinnovabili sono prevalenti nel mix di prezzo, quest’ultimo è basso. All’aumentare della percentuale di rinnovabili, il divario tra i costi marginali e quelli medi del sistema aumenta. Gli aumenti esponenziali del prezzo del gas amplificano poi il fenomeno.

Per molti esperti, uno degli errori strategici compiuti dall’Europa è stato quindi quello di aver avvalorato un sistema di pricing basato sul Spm, che nel tempo si è dimostrato un boomerang. Una alternativa ci sarebbe, ed è rappresentata dal sistema pay as bid, con il quale si corrisponde all’operatore – per ciascuna unità di energia prodotta – una remunerazione pari al valore effettivamente offerto sul mercato. Il pay as bid non è un meccanismo sconosciuto ai mercati elettrici: in diversi Paesi disciplina i mercati del bilanciamento, attraverso cui gli operatori di rete (in Italia, Terna) si approvvigionano di risorse più o meno in tempo reale per compensare gli errori di previsione della domanda o dell’offerta. Il pay as bid venne seriamente considerato all’epoca della liberalizzazione, ma poi – in quel contesto – si scelse il Spm, non ultimo per la sua semplicità.

 

L’arma vincente della revisione dei meccanismi di pricing

La discussione sulla revisione dei meccanismi di pricing dell’energia è in corso da tempo: l’ha aperta la Spagna, che però non ha visto la sua richiesta accolta dalla Commissione europea. Sempre la Spagna ha successivamente scritto un non-paper a cui hanno aderito anche Italia, Francia, Grecia e Romania.

Il pricing pay as bid sarebbe particolarmente efficace se associato con contratti di tipo Cfd. Il sistema dei Contratti per differenza (Cfd) è il principale meccanismo per sostenere la produzione di elettricità a basse emissioni di carbonio. I Cfd, infatti, incentiverebbero gli investimenti nelle energie rinnovabili fornendo agli sviluppatori di progetti con alti costi iniziali e lunga durata di vita una protezione diretta dalla volatilità dei prezzi all’ingrosso, e proteggono i consumatori dal pagamento di maggiori costi di supporto quando i prezzi dell’elettricità sono alti. I progetti rinnovabili possono stipulare un contratto di diritto privato con il Gestore dei servizi energetici (Gse), ricevendo una tariffa forfettaria (indicizzata) per l’elettricità prodotta per un periodo di 15 anni; la differenza tra il “prezzo di esercizio” (un prezzo per l’elettricità che riflette il costo dell’investimento in una particolare tecnologia a basse emissioni di carbonio) e il “prezzo di riferimento” (una misura del prezzo medio di mercato dell’elettricità nel mercato). Negli ultimi 20 anni, tuttavia, la scelta del sistema marginale e del gas spot sembra aver portato vantaggi agli investimenti in energie rinnovabili. Nessuno, a quel tempo, poteva realisticamente prevedere il conflitto in Ucraina. Altro elemento di discussione è se, oramai, ai produttori di rinnovabili il Spm assicuri un incentivo piuttosto che una vera e propria posizione di rendita, considerando l’elevata remunerazione che essi ricevono producendo ad un costo marginale praticamente nullo.

 

Superare il prezzo marginale con il pay as bid?

Ma quali sono i pro e i contro dei due sistemi? La risposta ce la fornisce sempre Carlo Stagnaro. Il Spm ha essenzialmente due vantaggi: primo, induce gli operatori a “rivelare” i propri reali costi marginali; secondo, garantisce agli impianti a bassi costi marginali e alti costi fissi che potranno recuperare l’investimento attraverso le rendite infra-marginali. Tuttavia, c’è il rischio simmetrico che vengano sovra-remunerati (come forse accade adesso) e che aumenti la volatilità dei mercati. Soprattutto, in un meccanismo di Spm è più facile colludere o esercitare potere di mercato: se un operatore sa che, in una certa ora, un suo impianto potrebbe essere marginale, ha interesse a non metterlo a disposizione (capacity withholding) rendendo quindi necessaria la chiamata di una centrale più costosa e facendo lievitare i prezzi. Questi abusi non sono rari: in Italia sono stati documentati e parzialmente risolti con interventi invasivi del regolatore. Il trattenimento di capacità non determina necessariamente una chiamata sul mercato dell’energia (Mgp – mercato del giorno prima) ma potrebbe portare ad un comportamento speculativo sul Msd (mercato servizi di dispacciamento). Monitoraggio dei comportamenti, moral suasion e sanzioni (difficili e spesso vittima della giustizia amministrativa) sono gli strumenti con cui si cerca di disincentivare tali comportamenti. Immaginare, però, che il pay as bid sia una panacea a questi comportamenti è sbagliato.

Viceversa, con il pay as bid nessuno può, da solo, determinare il prezzo dell’intero sistema: ognuno, con le sue strategie di offerta, stabilisce il prezzo in corrispondenza del quale è disponibile a produrre, ma non influenza la remunerazione dei concorrenti. Inoltre, il pay as bid spinge gli operatori a rivelare i loro costi di riserva, quelli al di sotto dei quali non sono disposti a mettere in funzione l’impianto. Ciò non significa che i meccanismi di pay as bid siano perfetti, perché gli offerenti si adatterebbero subito alla nuova regola, adoperando condotte strategiche nella fissazione del prezzo. Tuttavia, sembrerebbe esserci evidenza che – se il mercato è sufficientemente competitivo e l’informazione sufficientemente completa – il pay as bid è un meccanismo preferibile al Spm. Non è solo una questione di strategie di prezzo, ma anche di oggettive dinamiche industriali che governano l’esercizio degli impianti e non possono essere rese trasparenti.

 

Il nodo del compenso alle rinnovabili

Sempre a detta di alcuni esperti, le ragioni che hanno indotto a preferire il Spm sembrerebbero poco valide in un contesto radicalmente mutato come quello attuale, dove il prezzo marginale dipende sempre più da impianti a gas con caratteristiche per nulla rappresentative del parco di generazione, costituito soprattutto da rinnovabili. Una quota crescente dell’energia viene già oggi scambiata al di fuori della borsa, seguendo un principio che, di fatto, è già quello del pay as bid. Il fatto che gli impianti rilevino i loro costi fa sì che le rinnovabili siano pacificamente sempre dispacciate. Se si attivasse il pay as bid un operatore di rinnovabili cercherebbe di offrire a prezzi più alti e avremmo il paradosso che impianti con prezzi bassi potrebbero essere non chiamati e ci troveremmo energia “potenzialmente” a basso costo non dispacciata. È come se le rinnovabili avessero improvvisamente cessato di essere “incentivate” e gli venisse chiesto di contribuire alla riduzione dei costi. Come sempre è un tema di “misura”. Quello che si contesta alle rinnovabili è quello di accedere a remunerazioni eccessive rispetto a cicli di investimento che erano programmati per rientrare in 7-10 anni. Ci si dimentica che un segnale di prezzo alto sarebbe però un naturale incentivo a fare investimenti in rinnovabili, vista la riduzione dei tempi di ritorno e questo determinerebbe l’effetto positivo di ridurre i prezzi (certamente in un periodo più lungo). Ecco perché si deve prestare attenzione a ridurre il segnale di prezzo artificialmente per periodi di tempo troppo lunghi. Il problema è che le rinnovabili sono ora maggiormente presenti ma la generazione è ancora prevalentemente a gas. Bisogna quindi fare attenzione a focalizzare il tema sull’energia prodotta e non sulla potenza installata. Sono due cose diverse e i dati dimostrano che il fattore di capacità di un impianto convenzionale è decisamente superiore a quello delle rinnovabili. Una cosa però sembra essere pacifica; l’intermittenza, caratteristica intrinseca delle rinnovabili, rende fondamentale disporre di un mercato di dispacciamento, che è disciplinato dalla regola del pay as bid. Insomma: sembra essere la realtà fattuale a mettere in discussione l’adeguatezza del Spm alle nuove forme dei mercati elettrici.

 

Le disfunzioni dei mercati del gas

Un elemento di forte criticità è, inoltre, quello della reale efficienza e trasparenza dei mercati del gas, in particolare del Title Transfer Facility di Amsterdam. Questo mercato spot, molto volatile come tutti i suoi simili, ha progressivamente sostituito i contratti bilaterali a lunga scadenza tra i Paesi. Esso consente non solo ai commercianti all’ingrosso, ma anche ai trader finanziari, di determinare il prezzo dei contratti a termine sul gas naturale. I prezzi futuri possono essere negoziati più volte prima della scadenza; questa caratteristica ha trasformato i contratti sul gas in cash-settled instruments, contratti sulla differenza di prezzo che possono essere regolati senza la consegna del sottostante, piuttosto che physical instruments, cioè contratti che richiedono la consegna fisica. A tal proposito va osservato che i contratti future vanno bene ma devono essere conclusi con un effettivo scambio delle merci trattate (physical delivery) e, secondo, che alle contrattazioni dovrebbero essere ammessi solo i trader che hanno effettivamente una copertura finanziaria dei contratti che sottoscrivono e non quelli che operano solo con una “leva finanziaria” costruita sui debiti. Inoltre, il Ttf è un mercato relativamente “piccolo”, se comparato con quello del petrolio quotato a Londra (Brent), e poco liquido, il che lo rende estremamente volatile, suscettibile a forti variazioni del prezzo. Ogni piccola frizione esterna si riverbera sulle quotazioni, figuriamoci cosa accade con un evento come la guerra. La differenza con l’altro mercato di riferimento, l’Henry Hub della Florida, che prezza il gas made in Usa, è enorme. Oltreoceano il prezzo viene fissato direttamente dai produttori all’imbarco ed è molto più rappresentativo del reale valore del gas. In cifre: il valore del gas liquefatto prezzato sull’Henry Hub è un quarto di quello prezzato al Ttf di Amsterdam, nonostante il gas liquefatto sia molto più costoso di quello naturale. Alla fine, gli europei pagano il gas naturale quasi dieci volte il prezzo pagato dagli statunitensi. Un’evidente inefficienza che va risolta a tutti i costi.

Una riforma del funzionamento del mercato europeo, e del mercato internazionale del gas nel suo complesso, per aumentare efficienza e trasparenza delle transazioni appare, dunque, urgente. Sarebbe questo il punto di caduta “olistico” dell’intera questione legata al pricing dell’energia. Anche perché, sui mercati è sempre più comune la stipula di accordi per la cessione dell’energia a lungo termine (i cosiddetti Ppa): anche in questo caso il prezzo dell’energia è generalmente slegato dai costi marginali del sistema. Il costo marginale è un competitor del Ppa e l’investitore rinnovabile deve decidere se “rischiare” il ritorno elevato e variabile che ottiene in borsa o la remunerazione più bassa e sicura del lungo termine. I Ppa in Italia hanno anche un problema di rischio controparte legato alla struttura industriale. Sono di elezione per grandi soggetti industriali a consumi relativamente costanti che possono garantire appunto da rischio volume e controparte. Nel caso delle nostre Pmi questo è un ulteriore elemento di attenzione.

L’altro grande errore strategico fatto da Bruxelles sembrerebbe essere stato quello di non aver più fatto ricorso a dei contratti di fornitura del gas di lungo termine di tipo “take or pay”, preferendo accordi di tipo “spot” stipulati ai prezzi di mercato correnti. Una tale scelta ha permesso alla Russia di manipolare l’offerta e i prezzi del gas in Europa. Quindi l’errore strategico è stato quello di perdere la diversificazione passando da un portafoglio bilanciato di fornitori e di tipologia di contratti e di rotte di approvvigionamento ad una esclusività che adesso scontiamo. È, però, anche vero che in passato sostenere maggiori costi per una sicurezza rispetto ad un approvvigionamento non percepito come a rischio sarebbe stata una scelta assai complicata da sostenere politicamente.

 

Le possibili soluzioni nel breve periodo

Una volta analizzate le caratteristiche dei mercati energetici e le relative problematiche, dobbiamo quindi capire quali soluzioni si potrebbero proporre. E bisogna distinguere tra il breve e il medio-lungo periodo. Nel breve periodo le vie sono principalmente due: la riduzione della domanda di energia e la revisione del sistema di fissazione dei prezzi sui mercati elettrici, come appena annunciato da von der Leyen.

Riguardo al primo punto, in Italia, come in Europa, sono già al vaglio piani per il risparmio energetico o l’uso smart dell’energia e del gas da parte di imprese e cittadini. Non un razionamento vero e proprio, ma un contenimento “intelligente” nell’uso delle fonti energetiche. La Pubblica amministrazione, specialmente nel nostro Paese, può giocare un ruolo cruciale, sviluppando una importante azione di contenimento dei costi e dei consumi con una forte motivazione al risparmio energetico, l’ottimizzazione nell’uso degli spazi, l’inserimento di obiettivi specifici nella premialità dei dirigenti.

Il mercato necessiterà di conferme sulla riduzione della domanda per allentare la tendenza rialzista sul gas. È, inoltre, dirimente che l’Italia solleciti l’apertura di un tavolo negoziale a livello europeo per riconoscere le necessarie compensazioni ai settori industriali energivori, particolarmente danneggiati dal forte rialzo dei prezzi. Sul versante degli aiuti economici, il nostro Paese si è già distinto, essendo il secondo nell’Ue per stanziamenti messi a bilancio a sostegno di famiglie e imprese da settembre 2021 ad oggi. Come ha calcolato il think tank Bruegel, il Governo Draghi ha stanziato 49,5 miliardi di euro, una cifra seconda soltanto a quella investita dalla Germania. L’Italia è anche il terzo Paese per spesa in percentuale rispetto al Pil (2,8%).

Bisogna agire con urgenza, perché i differenziali di prezzo del gas che si ravvisano tra Europa, Stati Uniti e Cina rappresentano sempre di più un rischio di perdita di competitività per la produzione di beni europei, a vantaggio dei competitori stranieri. Un’altra misura per allentare nell’immediato la morsa sul mercato dell’energia passa per la revisione dei meccanismi di pricing energetico, anche al fine di permettere ai costi di generazione da fonti green di incidere maggiormente sul costo dell’elettricità. È il “decoupling” delle fonti nel mercato energetico, anch’esso caldeggiato da von der Leyen e già in essere negli Stati Uniti. Sganciare il prezzo dell’elettricità da quello del gas o eliminare l’indicizzazione rispetto alle rinnovabili potrebbe essere una soluzione efficace. Anche superare la dipendenza dalla borsa di Amsterdam potrebbe essere utile. Si potrebbe, per esempio, introdurre un tetto massimo fissato al benchmark del prezzo Henry Hub.

Il tema dell’introduzione del decoupling e del price cap, tuttavia, è complesso, perché richiede una revisione drastica del mercato unico europeo. Nel momento in cui in un Paese forma un prezzo diverso e più basso le esportazioni crescono e quindi la generazione per sostenere l’esportazione aumenta. Non a caso gli esempi di price cap oggi tentati (Spagna e Grecia) si basano tutti su contesti poco interconnessi con il mercato europeo, a differenza di Italia e Germania. Estendere il modello spagnolo a tutta Europa potrebbe essere una soluzione, a patto che non si crei uno sbilanciamento alle frontiere. Ovviamente potrebbe esserci un aumento della generazione di gas nei Paesi più interconnessi, ma se fosse il costo da pagare per limitare la recessione si potrebbe ragionarci sopra, soprattutto se la misura avesse carattere temporaneo (18-24 mesi). Se si volesse fare un disaccoppiamento definitivo si dovrebbe (ipotesi che sta valutando l’Inghilterra), invece, creare una contrattualizzazione a due vie per tutte le rinnovabili ad un prezzo “equo” (è una tecnicità se “obbligare” ai contratti o rendere sconveniente essere fuori dai contratti) e lasciare al mercato il compito di chiudere la fornitura con il solo mercato delle fossili (o delle programmabili). Sarebbe un modo per massimizzare il contributo delle rinnovabili senza alterare il segnale di prezzo per il mercato unico. A tal fine, si potrebbe intervenire su:

1 – Indicizzare i contratti allo spot. Il contratto di lungo fornisce la copertura del carico base e lo spot permette di compensare le punte impreviste. Ma andrebbe verificata la possibilità di limitare per norma i meccanismi di indicizzazione al mercato spot. Questo avrebbe un supporto da parte dei nostri importatori che alle istanze del venditore potrebbero contrapporre una impossibilità normativa nel rinegoziare indicizzando a spot. Sarebbe un po’ l’effetto di avere non un vero cap, ma evita la propagazione a tutto il gas contrattualizzato e limiterebbe l’interesse militare di influenzare lo spot;

2 – Introdurre un meccanismo per limitare le posizioni finanziare sul gas non finalizzate a posizioni di copertura o sottostanti fisici. Ma molti operatori finanziari, in ogni caso, prendono posizioni anche per clienti del settore energetico, per cui la distinzione è ardua da mettere in atto concretamente.

Ma chi paga la differenza tra il prezzo spot di mercato di oggi e il prezzo amministrato, considerando che dovrebbe essere applicato a contratti, spesso di lungo periodo, già sottoscritti dalle grandi compagnie energetiche? L’Occidente è in grado di imporre alla Russia il pagamento del prezzo amministrato, invece di quello spot? Può lo Stato ingerire in una trattativa privata che riguarda le imprese energetiche, imponendo un prezzo dirigista? La Russia sembrerebbe avere più potere contrattuale dell’Europa in questa battaglia. Senza contare che, alla fine, potrebbe anche vendere il gas ad altri Paesi. Diverso sarebbe fiscalizzare, da parte del Governo, la differenza tra il prezzo pagato dalle aziende e quello praticato in bolletta. Ma forse la misura più utile, e meno costosa per le finanze dei singoli Paesi, sarebbe l’introduzione di una versione “flessibile” del price cap, sul modello del Transmission Protection Instrument usato dalla Bce come scudo anti-spread. In questa versione, lo scudo consisterebbe in un meccanismo pubblico di pricing, o remunerazione dei produttori, che interverrebbe, al superamento di una determinata soglia, possibilmente non resa nota ex ante, con modalità e tempi a totale discrezione del policy maker europeo.

Tornando alla metafora della partita di scacchi, l’Europa, per riequilibrare la partita, deve dotarsi di nuove regole flessibili di funzionamento dei mercati dell’energia, in maniera da battere la Russia sulla sua stessa strategia: quella dell’imprevedibilità. Una strategia che nella teoria dei giochi di conflitto si chiama “tit-for-tat”, ribattere colpo su colpo con le stesse armi del nemico. Almeno fin quando non saranno ripristinate normali condizioni di mercato, ovvero finché l’Ue non si sia definitivamente affrancata dalle fonti energetiche russe. L’Unione dovrebbe, in sintesi, proporre un meccanismo di formazione dei prezzi che limiti al massimo il peso del gas russo sul pricing dell’energia elettrica e dichiarare apertamente che è disposta a modificare quelle regole fin quando i mercati non saranno in grado di prezzare il gas al suo reale valore. Un “whatever it takes” sull’energia, sul modello di quello lanciato da Mario Draghi nel 2012 per fermare la speculazione sui mercati del debito europeo. Questo approccio dinamico alle regole di pricing renderebbe più difficile, per la Russia, calcolare l’offerta minima alla quale massimizza i suoi profitti e, per gli investitori, scommettere sull’aumento di prezzo.

 

Le strade da percorrere nel lungo periodo

Nel lungo periodo, invece, la soluzione è l’aumento dell’offerta di gas, da un lato rafforzando la capacità estrattiva, gli investimenti, le infrastrutture, la ricezione del gas liquefatto dal Nord America, i rigassificatori, e dall’altro lato diversificando le fonti di approvvigionamento energetico, anche a livello geografico. Secondo alcuni esperti, questo insieme di interventi dovrebbe essere accompagnato da un rallentamento del Green Deal, ossia da una sospensione dei target di riduzione CO2. Allentare i limiti prefissati potrebbe, in effetti, contenere la speculazione e ridurre l’onere della transizione che grava sulle spalle delle imprese europee, costrette a competere con Cina e India, Paesi molto meno impegnati nel taglio delle emissioni inquinanti. La Cina, in particolare, si è trovata nella stessa situazione in cui si trova oggi l’Europa e ha deciso di riaprire le miniere di carbone e reinserire i combustibili fossili nel mix energetico futuro. Questa scelta le ha consentito di mantenere l’inflazione al 2,0%. Senza contare che nessun investitore sarebbe incoraggiato a puntare sulle infrastrutture per potenziare l’offerta delle fonti fossili sapendo che sono il bersaglio nel mirino dell’Ue. L’esempio della ricerca di nuovi giacimenti in Italia e nel Mediterraneo è esemplificativo: con gli attuali vincoli del Green Deal, nessun produttore ha incentivi a potenziarla. La sospensione potrebbe riguardare il sistema europeo dei certificati verdi (Ets), il cui prezzo è più che quadruplicato nel giro di quattro anni.

Gli obiettivi della transizione green, per chi sostiene questa tesi, sarebbero, dunque, in trade-off con quello prioritario di proteggere la sicurezza energetica nazionale. Ma altri esperti non concordano, proprio perché ritengono il Green Deal un catalizzatore del ricorso alle rinnovabili, nonché un asse portante del Pnrr. Un compromesso potrebbe essere quello di deflazionare la “retorica green” e limitarsi ad annunciare un freno al piano verde (in stile “forward guidance” delle banche centrali). Potrebbe bastare per mutare i fondamentali rialzisti del mercato senza che la transizione energetica si fermi davvero.

Resta centrale la proposta di un Next Generation Eu 2 per finanziare nuovi Pnrr dedicati ad affrontare la crisi energetica. Altre soluzioni strutturali, di lungo periodo, sono le liberalizzazioni e le semplificazioni del mercato delle rinnovabili. Sulla liberalizzazione una riflessione si dovrebbe fare sulla evoluzione della struttura di mercato lato offerta perché la presenza del principale operatore di mercato è ancora troppo rilevante e non ci sono reali competitor in grado di diversificare l’offerta.

L’Italia potrebbe subito dare un segnale politico importante, destinando all’efficienza energetica nella prossima legge di bilancio alcune delle risorse allocate nel Fondo complementare da 30,6 miliardi di euro, con impatto nullo sui conti pubblici. Indicherebbe che il nostro Paese inizia a fare la sua parte aggiornando i propri investimenti connessi al Pnrr secondo il programma RePower Eu, aprendo la strada a un aggiornamento del Piano di ripresa senza attivare la procedura ex art. 21 del Regolamento 241/2021.

Per l’Europa la lezione da tenere sempre a mente è quella di Kasparov, uno dei migliori scacchisti di sempre: “La più grande capacità negli scacchi risiede nel non consentire all’avversario di mostrarti ciò che è capace di fare”.