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R.BRUNETTA (Editoriale su ‘Huffington Post’): “L’inflazione si combatte con più concorrenza e migliore regolazione”

 

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E se l’inflazione, più o meno persistente, che oggi stiamo subendo fosse il prodotto non solo di un malessere generale di tutte le nostre istituzioni economiche, ma anche, e soprattutto, dell’inadeguatezza della cassetta degli attrezzi teorica elaborata nel secolo scorso e che, molto probabilmente, oggi non appare più all’altezza dei tempi per combattere il fenomeno? Come è avvenuto con le terapie a base di salassi e sanguisughe per il controllo della circolazione sanguigna nei tempi andati. Ma andiamo con ordine.

La recente grande fiammata dei prezzi è arrivata all’improvviso in Occidente, come conseguenza di una molteplicità di fattori concomitanti. Gli analisti ritengono che essi siano principalmente i seguenti: forte aumento della domanda di beni e di servizi nella fase di uscita dell’economia mondiale dalla pandemia; strozzature nelle catene del valore globali, in particolare negli approvvigionamenti di beni intermedi; eccesso di liquidità nei mercati finanziari per effetto delle politiche monetarie ultra-espansive praticate dalle banche centrali nell’ultimo decennio; aumento dei costi di produzione e del lavoro che le società hanno ribaltato sui consumatori; cambiamento strutturale dei prezzi relativi di beni e servizi – come evidenziato da molti economisti – e, da ultima, guerra in Ucraina e impatto su alcune materie prime, in particolare energetiche.

L’ultimo Rapporto economico annuale della Banca dei Regolamenti Internazionali riporta dei dati che mostrano inequivocabilmente la serietà del fenomeno inflazionistico in corso. In particolare, il Rapporto evidenzia che la proporzione di item presenti nel paniere dei beni sul quale è calcolata l’inflazione che hanno subito aumenti dei prezzi superiori al 5% su base annuale ha raggiunto ormai il 60% nei paesi ad alto reddito, mentre i redditi reali dei lavoratori sono calati notevolmente. A questa recrudescenza inflazionistica, che ha toccato livelli che non si osservavano ormai da quarant’anni, le banche centrali hanno reagito in ritardo e in modo non efficace, basandosi su previsioni errate circa la natura temporanea dell’inflazione (la pandemia prima, la guerra poi). La risposta è stata quella standard, ossia un rapido e sostenuto rialzo dei tassi d’interesse, nel caso della Banca Centrale Europea dallo 0 al 4,0%. Rialzo ancora in corso e destinato, almeno stando alle dichiarazioni della governatrice Christine Lagarde rilasciate all’incontro di Sintra, a proseguire ulteriormente nell’immediato futuro, passando così da una reazione tardiva ad una che rischia di essere eccessiva.

Nel tentativo di sconfiggere l’inflazione, compresa quella di base – ovvero non dovuta alle componenti energetiche ed alimentari – la BCE, così come la Federal Reserve (che però ha nel suo mandato anche l’obiettivo del conseguimento della piena occupazione), sta applicando né più né meno che l’ortodossa “regola del pollice” che si insegna nei libri di macroeconomia: quando l’inflazione sale, per ridurla occorre praticare politiche monetarie restrittive, ovvero alzare il costo del denaro e ridurre l’offerta di moneta, provocando così una riduzione della domanda da parte del settore privato, degli investimenti e delle aspettative di inflazione. Secondo questa teoria, la recessione è quindi l’effetto collaterale (il noto “costo del rientro”) che l’economia deve pagare affinché l’inflazione torni nuovamente su livelli accettabili. Strategia adottata con successo, ad esempio, da Paul Volcker e dalla Federal Reserve all’inizio degli anni Ottanta, per ridurre l’inflazione derivante dagli shock petroliferi degli anni Settanta. Se quella ricetta ha funzionato negli Stati Uniti di quegli anni, e forse funzionerà anche oggi al di là dell’Atlantico, non è detto che funzioni nell’eurozona, considerando che i fondamentali dell’economia USA non sono certamente gli stessi di quelli del Vecchio Continente.

Innanzitutto, gli stessi libri di teoria economica insegnano anche che, affinché una stretta monetaria sia efficace, occorre che essa sia accompagnata da politiche di bilancio anch’esse restrittive (aumento delle tasse, riduzione della spesa pubblica, dei sussidi, etc.), in maniera da creare un ottimo “policy mix” o “fine tuning” delle politiche economiche. Ma questo non è scontato in un contesto come quello dell’eurozona in cui ad una unica politica monetaria non corrisponde una altrettanto unica politica di bilancio. Senza dimenticare che non esiste un solo tipo di inflazione, dal momento che quella che si è avuta negli Stati Uniti ha i caratteri tipicamente di una inflazione più derivante dal lato della domanda (o salariale), mentre nell’eurozona l’origine dello shock inflazionistico è stata sicuramente più legata al lato dell’offerta. Proprio la differente natura dell’inflazione, e dunque dei diversi canali attraverso i quali si è propagata nel sistema economico, richiederebbe analisi e interventi diversi da parte dei banchieri centrali, nella consapevolezza che una politica monetaria restrittiva dispiega la sua efficacia soprattutto con una inflazione del primo tipo, mentre per una inflazione da offerta il suo sforzo, almeno all’inizio del fenomeno (quando i c.d. effetti del secondo ordine sono sotto controllo), è quasi vano.

Certamente, l’unificazione delle politiche di bilancio degli Stati membri, così come la creazione di una capacità fiscale comune e di un bilancio europeo di dimensioni adeguate dovrebbero rimanere l’obiettivo finale del processo di integrazione economico europeo, quanto mai auspicabile. Purtroppo, però, il crudo realismo impone di considerare che questo obiettivo non sarà certamente raggiunto a breve. Nel frattempo, l’inflazione, compresa quella al netto delle componenti energetiche e alimentari, è ormai penetrata nel meccanismo economico, non più solo come shock esterno, e dunque le politiche monetarie della BCE si stanno dimostrando insufficienti per risolvere il problema.

Proprio la grande solitudine di Francoforte rappresenta “il” problema attuale dell’architettura istituzionale europea. In assenza della possibilità di effettuare un “fine tuning” delle politiche economiche nazionali, che anzi l’inflazione l’hanno in parte incoraggiata con una politica generalizzata di sussidi a fronte della crisi energetica, le alternative rimangono soltanto due. O si demanda alla sola banca centrale gli oneri e gli onori di sconfiggere l’inflazione, oppure occorre coadiuvarla attuando delle efficaci politiche di regolamentazione dal lato dell’offerta (supply-side policies), le vere grandi assenti nel panorama politico di oggi. La parola “concorrenza”, che pur dovrebbe essere il faro guida delle politiche di mercato dell’Unione, è infatti completamente scomparsa dall’agenda politica dei governi. E a nulla vale rispolverare la prima lezione che si insegna nei corsi di microeconomia, ovvero che in un mercato concorrenziale i prezzi sono più bassi di quelli che si formano nei mercati monopolistici o oligopolistici, e che la concorrenza agisce sempre come un meccanismo naturale per il corretto rispristino dei prezzi di mercato, riducendo i profitti delle imprese e andando a vantaggio dei consumatori.

Basterebbe citare l’esempio del mercato del vetro, ormai in mano a un oligopolio internazionale di società – per la maggior parte asiatiche – che si sono spartite il mercato, ad esempio nel vetro cosiddetto “piatto” e in quello che viene utilizzato nella produzione dei panelli fotovoltaici, con la conseguenza che i prezzi del vetro hanno raggiunto, anche in Europa, livelli insostenibili e non c’è possibilità che essi possano scendere. E, almeno al momento, non si vede alcuna autorità antitrust di dimensione globale in grado di poter contrastare questa evidente deriva anticoncorrenziale. Il guadagno di due aziende rappresenta la perdita di milioni di consumatori. Se si estendesse l’analisi anche alle principali materie prime, i cui prezzi sono aumentati a livello esponenziale, oppure alla logistica e ai trasporti, la conclusione sarebbe esattamente la stessa: mercati poco concorrenziali, dove i consumatori sono soltanto price-taker, ovvero subiscono i prezzi senza poter rivolgersi a valide alternative.

L’evidenza empirica corrobora l’ipotesi che il potere di fissazione del prezzo delle società in mercati poco concorrenziali abbia giocato un ruolo fondamentale nell’aumentare e tenere alto il livello generale dei prezzi al consumo nell’eurozona. Un recente studio della Banca Centrale Europea ha dimostrato come le società operanti nell’area euro, nel corso degli ultimi due anni, abbiano reagito al forte incremento dei costi alla produzione e dei salari addirittura aumentando i loro profitti, a riprova del fatto che esse hanno scaricato interamente sui consumatori l’aumento dei costi di produzione subìto. Una scelta profittevole per loro e possibile soltanto grazie all’assenza di un sufficiente grado di concorrenza sul mercato. Uno studio di Allianz Trade realizzato sempre sul comportamento delle società europee è arrivato alla stessa conclusione: le imprese operanti a monte e a valle delle catene del valore di molte filiere come quelle della logistica o degli autotrasporti hanno ottenuto un potere di monopolio nella fissazione dei prezzi, utile per sostenere l’inflazione da profitti, grazie agli shock dei prezzi delle commodities dovuto a fattori quali la pandemia, la crisi energetica e le strozzature da offerta registrate proprio nelle catene del valore globali.

Per aumentare il grado di concorrenza dei mercati la banca centrale può fare poco o nulla. E a poco vale continuare ad alzare il costo del denaro nel tentativo di abbassare i prezzi, quando questi sono fissati dalle imprese secondo regole non di mercato. In assenza di mercati concorrenziali, infatti, l’aumento del costo del denaro e, più generale, le politiche monetarie di tipo restrittivo, non sono efficaci per ridurre l’inflazione. Esse creano soltanto una redistribuzione di ricchezza che spesso è di natura regressiva, ovvero la ricchezza si trasferisce dalle componenti più povere a quelle più ricche della società. Una vera e propria tassa sui poveri. Tassi troppo alti potrebbero provocare, inoltre, una correzione al ribasso del mercato immobiliare che poi si trasformerebbe in una crisi sistemica, rispetto alla quale le banche potrebbero solo stringere le condizioni dei prestiti.

Se la banca centrale è impotente nel riequilibrare la concorrenza di mercato, non lo è tuttavia nel ruolo di leadership che essa dovrebbe esercitare in termini di capacità di analisi e di comunicazione al mercato. In questo momento storico, il problema della BCE è proprio questo: l’assenza di una leadership. Non ha pienamente elaborato che gli elevati profitti delle aziende sono dovuti all’esistenza di una struttura oligopolistica dei mercati (che non tocca però a lei risolvere); non ha ancora correttamente valutato l’impatto delle transizioni green sul mercato del lavoro e brancola nel buio sull’analisi dell’impatto delle politiche di nearshoring che stanno gradualmente prendendo piede; tantomeno, ha poche idee su cosa guidi realmente la produttività dei fattori. Più precisamente, la BCE commette l’errore fondamentale di limitare la sua analisi a dati visibili e standardizzati, una strategia che non funziona quando si è agli albori un cambiamento strutturale dell’economia come quello attuale. Se la banca centrale non si afferma come leader nel guidare il processo di cambiamento, è evidente come i mercati non riescano a capire quale strategia intenda seguire e a prezzare così il futuro costo del denaro.

Quanto al sistema bancario, per il quale la banca centrale detiene un toolkit di intervento ben più ampio del semplice controllo dei tassi d’interesse, le banche hanno il vantaggio di essere avanti nel processo di digitalizzazione e del risk management e quindi possono maneggiare il rischio operativo meglio di prima. Tuttavia, se esse non ricevono una guida della banca centrale, non sono in grado di prezzare il costo e la maturity dei prestiti da erogare al settore privato in modo ragionevole, per supportare l’economia reale a fare questa transizione. È singolare osservare, ad esempio, come la curva dei rendimenti delle obbligazioni sovrane sia in eurozona attualmente invertita e probabilmente tale resterà ancora per parecchi mesi, a riprova del fatto che gli operatori di mercato credono che l’inflazione sia soltanto un fenomeno transitorio, destinato a rientrare in pochi mesi. Ma se, al contrario, l’inflazione dovesse permanere, come potrebbe accadere, la curva dei rendimenti tornerà a normalizzarsi, con l’aumento dei rendimenti sovrani per le maturity di più lunga scadenza. La conseguenza di questa eventualità sarebbe l’accumulo di perdite di bilancio da parte del sistema bancario, se questo insiste nel credere all’errata guidance della banca centrale.

In attesa della creazione di un auspicabile mercato europeo che sia davvero unico e non frammentato, come è ancora oggi, le economie degli Stati membri presentano tuttora degli elementi idiosincratici tali per cui soluzioni centralizzate, come lo è per definizione la politica monetaria, da sole non sono sufficienti. Per usare una metafora medica, occorrono interventi e medicine personalizzate per il singolo paziente, nella consapevolezza che le cause dell’inflazione variano da stato membro a stato membro. L’aumento dei tassi d’interesse, se eccessivo, può dunque risultare insostenibile per alcune economie e creare vincitori e vinti in Europa, un risultato certamente non auspicabile.

E che non soltanto le politiche monetarie ma anche quelle geopolitiche debbano essere tenute in considerazione nell’affrontare le sfide post-Covid, lo ha ricordato di recente proprio Giorgia Meloni quando ha sostenuto, in un intervento all’assemblea di Assolombarda, “una delle principali sfide del nostro tempo, soprattutto per la transizione ecologica” è che l’Europa debba proporsi come fornitore alternativo per gli Usa che si stanno ‘sganciando’ dalla Cina. L’Europa dovrebbe quindi coordinarsi di fronte all’Inflation Reaction Act degli Stati Uniti affinché possa offrirsi come produttore alternativo, almeno di alcune materie prime critiche.

La stessa cosa dovrebbe valere anche per la riforma in corso del nuovo Patto di Stabilità e Crescita, attualmente in discussione a Bruxelles, il quale dovrebbe essere inserito in un approccio olistico alla nuova governance europea, nella quale è da comprendersi anche il nuovo MES e dove è sconsigliabile la soluzione di imporre percorsi di rientro dal debito uguali per tutti i Paesi, basati su meri parametri quantitativi. Al contrario, dovrebbe essere sposata l’idea di un rientro dal debito personalizzato per singolo paese, che tenga conto delle caratteristiche della sua economia e delle sue finanze pubbliche, sulla base dell’ovvia premessa che ci sia davvero la volontà, da parte di quel paese, di impegnarsi seriamente nella riduzione del fardello del debito. Una nuova governance europea, quella che deve nascere, che coniughi coerentemente crescita, stabilità delle finanze pubbliche e lotta all’inflazione e che sia in grado di contrastare l’errato credo riduzionista che politiche deflazionistiche, o addirittura recessive, possano essere un giusto antidoto contro l’inflazione da ciclo economico, in aperto contrasto con gli obiettivi stessi nel nuovo Patto. Senza considerare che una recessione indotta dalla banca centrale correrebbe il rischio di inibire il potenziale finanziario fornito dal meccanismo di salvataggio (backstop) previsto dal nuovo MES.

L’Europa, in sintesi, ha bisogno, oggi più che mai, di una forte accelerata verso il completamento del processo di integrazione delle proprie economie e finanze pubbliche, per poter addivenire, come auspicato da Mario Draghi nella sua Martin Feldstein Lecture 2023, ad una unione di bilancio che le consenta di sostenere finanziariamente le spese necessarie per poter conseguire gli obiettivi legati alle transizioni digitale e green che si è prefissata. Obiettivi che, ad oggi, non hanno strumenti adatti a sostenerli. Ed è fin troppo evidente che questi strumenti non possano che essere quelli di un aumento delle dimensioni del bilancio europeo, della creazione di una facility quale il Next Generation UE resa permanente, di una revisione dei fondi europei e, più in generale, di una messa in comune dei debiti e dei sistemi fiscali nazionali, il primo passo verso un Europa finalmente federale. Non sarà un processo indolore, considerando che, per ottenere questo risultato, ogni Paese dovrà essere disposto a rinunciare a parte della propria sovranità decisionale nelle questioni di politica economica. Ma l’alternativa, come ricorda Draghi, è quella di rimanere chiusi in “localismi” che alla fine porteranno l’Europa a perdere la propria industria e a non avere a disposizione né risorse sufficienti, né processi decisionali (a partire dal principio di maggioranza) adeguati a rispettare gli obiettivi delle grandi transizioni epocali. Una Europa, in sintesi, condannata all’irrilevanza davanti all’emergere prepotente delle nuove superpotenze globali.

E, allora, dovrebbe essere compito dei governi riprendere in mano l’agenda delle politiche della concorrenza e della regolamentazione dei mercati. Criticare l’operato dei banchieri centrali serve a poco, se tale critica non è accompagnata da una assunzione di responsabilità su quello che invece la classe politica può – e dovrebbe – fare. Occorre quindi ripartire dal mercato. Le soluzioni esistono già. Sono quelle scritte da anni nei numerosi rapporti redatti dalle agenzie per la concorrenza degli Stati membri (per l’Italia l’AGCM) o dalle agenzie settoriali come l’ARERA o l’AGCOM. A titolo esemplificativo, potremmo ricordare quanto scritto dall’AGCM nel suo Rapporto al Parlamento del marzo 2022, in cui l’Autorità ricordava come “le carenze delle infrastrutture di rete di trasmissione dell’energia elettrica possono dar luogo a situazioni di potere di mercato locale” e auspicava “che il contesto concorrenziale dei mercati dell’energia e dei servizi di dispacciamento si arricchisse con lo sviluppo di nuovi soggetti abilitati a fornire detti servizi”. E, ancora, come “il passaggio al mercato libero consente ai piccoli utenti di avere a disposizione un panorama di opportunità vantaggiose tra le quali scegliere la più conveniente, anche in termini di prezzo”. Consigli preziosi ma, purtroppo, rimasti inascoltati per troppo tempo. Suggerimenti dati da istituzioni che, per l’importanza che rivestono, andrebbero rafforzate, possibilmente inserendo le loro proposte all’interno del rafforzamento di quella che dovrebbe essere una vera politica della concorrenza europea, oggi più che mai assente.

Negli Stati Uniti, l’inflazione sta calando notevolmente. A giugno, l’indice dei prezzi al consumo ha registrato un aumento del +3,0% su base annua, in deciso rallentamento rispetto al mese precedente (+4,0%) e dodicesimo calo consecutivo che ha portato l’inflazione al livello più basso da marzo 2021. Anche l’inflazione core è scesa al +4,8%, dal +5,3% del mese precedente. Per molti analisti è la riprova che la grande stretta monetaria avviata dalla Federal Reserve di Jerome Powell sta funzionando, come funzionò all’inizio degli anni Ottanta con Paul Volcker. Ma è davvero così realistico questo nesso di causalità tra stretta monetaria e diminuzione dell’inflazione? La risposta è: “in parte”. Perché nell’eurozona la stessa strategia attuata dalla BCE non sta fornendo risultati analoghi a quelli degli Stati Uniti. Uno dei motivi che spiega il fallimento è che l’economia europea è senza dubbio meno sensibile ad un aumento dei tassi d’interesse, in particolare nei mercati azionari, immobiliari e del lavoro, essendo quest’ultimo più rigido ed ingessato di quello americano. L’economia americana è poi molto meno regolamentata e molto più concorrenziale di quella europea, a riprova della tesi esposta sopra: una politica monetaria restrittiva funziona più efficacemente con mercati concorrenziali e deregolamentati. L’altro motivo del fallimento è che non esistono ricette monetarie valide per tutte le economie, così come non esiste una unica medicina per curare tutte le malattie. Evidentemente, la cura di restringere la politica monetaria per creare recessione e quindi abbattere l’inflazione in Europa non funziona e, allora, altre sono le soluzioni che dovrebbero essere trovate. A partire dall’aumento del livello di concorrenza.

In conclusione, inutile continuare a litigare su chi deve muovere il dito, quando si ignora la luna che lo stesso sta indicando. O meglio, chi da tutto questo caos sta uscendo vincitore incontrastato: le multinazionali che controllano le filiere globali del valore, e che non ancora contente si apprestano, nell’indifferenza quasi generale, a battere moneta digitale. Con buona pace dei Governi impotenti, delle banche centrali figlie di un Novecento che non esiste più, e delle afasiche e pletoriche organizzazioni internazionali del commercio e della moneta, che non si sa più che fine abbiano fatto. L’inflazione, dunque, starà andando anche giù ma i problemi restano ancora tutti sul tappeto, con il potere sempre più in mano ai grandi titani societari, non contrastati da nessuno.