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LEGGE ELETTORALE. La profonda sintonia porta i primi frutti. Intese a quota 4,5 in basso e 37 in alto. L’Italicum non è diventato l’Italietticum.

 

 

 

Renzi berlusconi

 

Si fa. L’accordo c’è. L’Italia avrà governabilità e certezze. Prima che sia tardi. I numeri buoni, anche se è più complicato giocarli al lotto, sono: 4,581237. Il patto di cui sono stati protagonisti Berlusconi e Renzi ha retto all’urto. Soprattutto prende vigore come cardine del futuro, che non erano e non sono i numeri, ma quello che stava prima, la regola delle regole, la “profonda sintonia” che è l’architrave della costruzione di questa democrazia rinascente in Italia dopo la guerra civile infinita.

Siamo trionfalisti? È la naturale propensione di chi ha vinto, non per sé ma per un bene più grande.

 

In sintesi.  L’Italicum non è diventato l’Italietticum, misurato sul guicciardiniano “particolare” di questa o quella forza politica.  Avevamo detto: non si sposta una sedia, non si muove un posacenere, non si aggiunge un decimale alla quaterna 5, 8, 12, 35 (+18),  salvo  l’accordo di tutti. E per consenso  “di tutti”, intendevamo in primis quello dei contraenti del patto, Renzi e Berlusconi. I quali avevano già trovato un punto di nobile compromesso. L’uno, Renzi, accettando il punto di vista di Berlusconi sulla negatività delle preferenze; quest’ultimo consentendo a dire di sì all’eventuale ballottaggio, ben sapendo che per tradizione questo penalizza i moderati.

Ecco, fatti salvi questi due punti, sulle restanti regole hanno proposto la pietanza del bipolarismo con maggioritario, che salvaguardasse insieme governabilità e rappresentanza conforme a ragionevolezza. Accettando al massimo la possibilità di modificare la quantità degli ingredienti, che però tali dovevano restare. È stato Renzi a dire: “La riforma non è un menu à la carte”.  Fuor di metafora, l’esistenza di soglie si può contrattare, purché restino tali da favorire coalizioni tendenzialmente bipolari. Risultato raggiunto.

 

Renzi e Berlusconi, hanno deciso, avendo ascoltato tutti, di definire un nuovo compromesso di alto rango, e che stavolta includesse nel patto anche i partiti minori. C’è stata anche la “moral suasion” del Capo dello Stato, eco delle preoccupazioni della Consulta, che ha avuto il suo peso nell’alzare la soglia senza cui non c’è bisogno di ballottaggio. Non si poteva rischiare di trovarsi davanti ad un capo dello Stato che, applicando le sue prerogative, rimandasse alle Camere una legge urgente come quella elettorale, causa manifesti elementi di incostituzionalità. Buon senso e disposizione al sacrificio da parte di Berlusconi, consapevole che quel numero da lieve stato febbricitante danneggia la coalizione di centrodestra. Va bene così, non ci fa paura niente.

Qualcuno, lo sappiamo, il mondo è pieno di gente brava a criticare il lavoro degli altri, dirà che si è ceduto ai roditori. Prima proponiamo un giochetto. La somma dei numeri dava nella prima versione 60. Ora dà 61,5. La modifica è stata di un punto e mezzo. Con un tasso di cambiamento sopportabile, non sconvolge la sostanza del bipolarismo.

Ma non erano i numeri il cuore del patto. Il patto dei patti in realtà si sostanziava ( e si sostanzia) nella formula usata da Renzi nel sintetizzare l’incontro con Berlusconi: “profonda sintonia”. Questo mostra che il centro dell’accordo è il metodo dell’accordo, senza di cui il modello predisposto è roba morta, senza significato. Questo ha reso il patto un avvenimento, gli conferisce natura strategica, lo sigilla nella sua essenza di regola delle regole. Il patto o piatto,  per restare in tema di menù, si frantuma a terra se non sta poggiato sul tavolo di quei due.

 

Non c’è da aggiustare oltre, nelle aule di Camera e Senato, si annacquerebbe il vino buono. Modifiche migliorative sono ancora plausibili in Aula, l’intelligenza è per sua natura agile e non è certo carente nei due leader,  ma  le colonne portanti di governabilità e bipolarismo sono inamovibili. Sul resto niente carte truccate, confronto a viso aperto. Sperando che il Partito democratico sia renziano almeno la metà di quanto Forza Italia sia berlusconiana.

Letta

Intanto Letta va a Bruxelles da Barroso. Doveva recarvisi forte di un accordo di programma della durata annuale e carico di riforme come sicuro pegno di ripresa economica e credibilità. Ci va con un titolo fresco,  un gallone in più sul manico della spallina, quello di ministro dell’Agricoltura ad interim, e non è garanzia di forza. La scusa tignosamente ribadita per durare fino al 2015,  è quella di consentire all’Italia di attraversare senza scosse per la credibilità del nostro Paese il semestre di presidenza della Ue. Ma  è esattamente questa la prospettiva che ci spaventa. Non decide nulla, non fa nulla in Italia, che razza di scelte anemiche eserciterà in Europa un premier travicello?

 

Occorre da subito un governo che governi. Un esecutivo forte che, mentre si decidono le regole, dia una qualche garanzia in più e non consenta il precipitare progressivo dell’economia data l’incompetenza del governo in (dis)carica e dei suoi ministri.

 

Un Letta che va a Bruxelles come uno yogurt di tipo greco, in attesa di rimpasto,  mesto e pesto; un governo Letta, che energie vitali può suscitare nel Paese? Si vede dall’indice di fiducia in discesa verso il governo e tutti i ministri… Napolitano saprà prendere le sue decisioni, all’altezza dei fatti nuovi e pacificatori che hanno smosso e pulito da molto odio  la morta gora dei Palazzi romani? Ci contiamo.

 

PER APPROFONDIMENTI, CONSULTA: “IL MATTINALE – 29 gennaio 2014”