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RIFORME. Un dubbio di nome Fo-Fe. E se dopo l’amputazione del Senato abrogassimo anche la Camera? A furia di modificare il Patto il rischio è quello. Adesso si proceda, ma senza nuove quote e nuove soglie

 

 

 

SENATO

E se avesse ragione la filiera di pensiero Formica-Ferrara? E cioè fosse improponibile per la struttura intima e per lo statuto genetico dell’organismo repubblicano italiano amputare il Senato usando la trafila solita dell’articolo 138?

 

L’osservazione dei due ha una sensatezza formidabile e paradossale. L’art. 139 recita: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione”. Ma la forma repubblicana come l’avevano in testa i padri costituenti, dopo affannoso e colto dibattito, doveva camminare  inderogabilmente su  due gambe. Solo il Pci voleva il monocameralismo. E dunque l’art. 138 non può funzionare in offesa di un articolo che ne inibisce l’uso contro una colonna portante della nostra “forma” democratica.

 

Ovvio, un conto è ritoccare, un altro è trasformare Palazzo Madama in una sorta di bivacco di consiglieri regionali e mezze calze della cultura in gita trimestrale.

 

Paradosso per paradosso, usando l’art. 138 le Camere potrebbero abrogare la propria natura di assemblee elette dal popolo. Se si fa per una perché non a tutte e due il cambio di gestione e statuto?

Non stiamo giocando al teatro dell’assurdo. Ma svolgendo la logica  imposta a Renzi dal mal di pancia delle proprie minoranze indispensabili a lui per avere la maggioranza. Se avesse ragione il duo Fo-Fe, addio Italichellum, il quale verrebbe votato avendo già introiettato in se stesso la promessa di un abuso.

Per modifiche così radicali sarebbe assolutamente non idoneo un Parlamento eletto su base esageratamente maggioritaria.

Il pasticcio cresce se si ignorano problematiche serissime, imponendo una riforma elettorale “come se” la Costituzione abbia già subito l’espianto da se stessa di un organo costituzionale elettivo. Assurdo su assurdo.

 

Lo scrive oggi anche Piero Alberto Capotosti che illustra “una serie di punti critici, peraltro ingigantiti dall’autolimitazione alla sola Camera dei deputati”. Soprattutto, secondo il Presidente emerito della Consulta “si rischia di trovarsi in una situazione senza via d’uscita, non essendo per niente chiari modi e tempi di trasformazione del Senato in una ‘Camera delle Autonomie’”.

Non stiamo facendo problemi sul Patto raggiunto il 18 gennaio. Esso non accontentava i piccoli partiti, ma aveva una sua coerenza pratica e  costituzionale. Le successive modifiche concordemente accettate, con il ritocco delle soglie, sono state fatte di comune accordo, senza incidere sulla tenuta strutturale del medesimo.

 

La debolezza di Renzi ha poi imposto, assecondando Lauricella e D’Attorre, di proporre una legge elettorale solo per la Camera. Cosa che Berlusconi ha accettato con amarezza e per puro spirito di responsabilità. Dopo di che sta accadendo di tutto, quote rosa, anzi no, ora si chiamano bianche. Ciò su cui ha molto da dire, e proprio sull’“Unità” il costituzionalista Gianfranco Pasquino, il quale rileva che “la Corte costituzionale non aveva dato nessuna importanza alla tematica parità di genere”. Tanto più – dice con trasparente ironia – che “la parità può essere acquisita in molti modi, e quello che si va profilando non è necessariamente il migliore”.

 

Dunque, pacta servanda sunt. E cerchiamo di procedere senza troppi sbreghi alla forma repubblicana e alla parità vera, all’uguaglianza vera, che è quella di partenza, per cui si è posti tutti in condizione di uguaglianza (art. 3) per guadagnare il consenso degli elettori, e non secondo un pizzino sessista imposto dalla legge.

 

PER APPROFONDIMENTI, LEGGI IL MATTINALE – 10/03/2014