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ECONOMIA. Analisi preventiva del Def. Taglierà a qualcuno per dare a qualcun altro. Classico voto di scambio, solo per vincere le elezioni europee

 

 

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Contrariamente a quanto sostiene Matteo Renzi, secondo il quale le coperture agli sgravi fiscali ci sono fin dal primo giorno, per conoscere la reale portata del DEF – a partire dagli 80 euro (lordi o netti?) – dovremmo attendere la “nuttata”. Sarà il limite ultimo di quest’estenuante caccia al tesoro che, nei giorni precedenti, ha visto continui cambiamenti ed improvvisi ribaltamenti. Si era pensato all’inizio ad una manovra indolore, basata sul presupposto che si potesse tranquillamente andare oltre il 3 per cento di deficit. Una classico intervento di tipo keynesiano in deroga ai trattati internazionali e alle nuove norme di carattere costituzionale che ingabbiano l’attività di governo.

Avevamo detto fin dall’inizio che questa via era impraticabile. Ma ci sono voluti i risolini di Van Rompuy e di Barroso, nella sfortunata missione di Matteo Renzi in quel di Bruxelles, per dimostrare quello che era evidente da tempo. Si è passati allora al piano B: un abbellimento della prospettiva congiunturale. Non più un tasso di crescita dello 0,6 per cento, come indicato dalla Commissione europea e dagli altri Centri internazionali, ma un piccolo ritocco di 0,2 punti – a quanto è dato di sapere – verso l’alto. Risultato inconsistente: il deficit previsto rimane ancorato intorno a quel 2,6 per cento, che non consente spazi di manovra; ma solo ulteriori contraddizioni. Bisognerà, comunque, convincere la Commissione europea che le sue previsioni peccano di un eccesso di pessimismo.

Ed allora: contrordine compagni. Il nuovo tormentone è stato quello di ipotizzare ipotetici risparmi di spesa sugli interessi. Visto che gli spread, grazie alla grande liquidità internazionale che ha dirottato verso l’Occidente i capitali un tempo investiti nelle economie emergenti, sono caduti; perché non utilizzare quel margine per coprire nuova spesa corrente? Un secondo buco nell’acqua. Chi può dire che la situazione rimarrà favorevole fino alla fine dell’anno? I movimenti di capitale non hanno patria. Come sono entrati possono uscire. Quindi se risparmi vi saranno, come vi sono stati nel 2013, essi potranno essere certificati solo a consuntivo. Sintesi: niente da fare.

 

Da questo momento sono iniziate le vere difficoltà. Il dilemma è divenuto quello del dare e dell’avere. Se si vuol favorire il blocco sociale che forse voterà a sinistra, bisogna far piangere non tanto i ricchi, quando una media borghesia che pure rappresenta la spina dorsale del Paese. La tecnica usata da Mario Monti per portare l’Italia fuori dalla procedura d’infrazione e tradottasi soprattutto nell’aumento della tassazione sugli immobili.

 

Quella scelta si è dimostrata improvvida, com’è risultato evidente dal crollo del mercato edilizio che ha depresso, oltre ogni misura, l’intera economia. Non si dimentichi che nel 2013 solo la Grecia e Cipro hanno fatto registrare una caduta del PIL superiore a quella italiana. Ma almeno era, seppure in parte, giustificata dal fine nobile della salvezza nazionale. Oggi, invece, si vola basso. Quello proposto è semplice “voto di scambio” visto che il dare con la sinistra ed il togliere con la destra non avrà alcun effetto positivo sul quadro macro-economico. Anzi c’è rischio che quelle misure aumentino ulteriormente lo stato di incertezza spingendo proprio coloro che ancora possono spendere ad astenersi.

C’è da aggiungere il carico da undici della supponenza di Matteo Renzi.

 

Mario Monti, quando parlava al Paese, era carico di pathos. Proponeva una medicina amara per salvare il paziente. Il Presidente del Consiglio usa invece la tecnica della spocchia. Prendiamo il caso dei dirigenti pubblici, nei confronti dei quali propone tagli lineari. La motivazione? Guadagnano troppo rispetto ai loro omologhi esteri. Il confronto è fatto sulle retribuzioni nominali. In genere, invece, per essere commensurabili questi valori dovrebbero tener conto, come sempre avviene nei confronti internazionali, della diversa parità del potere d’acquisto. Ma per l’ex sindaco di Firenze, ragionamenti del genere sono fin troppo sofisticati. Gliene proponiamo uno più semplice ed immediatamente comprensibile.

L’ISTAT certifica, ogni anno, la dinamica retributiva di tutto il comparto del pubblico impiego. Le principali elaborazioni riguardano sia il numero che le retribuzioni dei dipendenti centrali e periferici. Per essere più precisi: il comparto dei ministeriali e quello che fa capo a Regioni, Comuni e via dicendo. Nel 2012, fatta 100 la spesa complessiva, essa si divide quasi al 50 per cento. Sennonché dal 1990 a quella data, la retribuzione pro-capite lorda dei dipendenti locali è aumentata, rispetto ai ministeriali, di circa il 21 per cento in più. Ed oggi la retribuzione media dei primi è pari a più di 36.000 euro, contro i 33.000 dei secondi.

 

Si deve aggiungere qualche ulteriore particolare. Sempre secondo l’ISTAT, i ministeriali sono scesi da oltre 2 milioni di occupati, nel 1990, a poco più di 1,8. I locali, invece, sono rimasti più o meno stazionari: da 1,44 milioni a 1,45 milioni. Nel fare questi raffronti si deve, ovviamente, tener conto delle diverse funzioni svolte. Negli apparati centrali, il grosso dell’occupazione è data dagli apparati di sicurezza (carabinieri, polizia e via dicendo) e dalla scuola.

A livello locale, se si esclude la sanità, il resto ha mansioni più generaliste. Logica vorrebbe, pertanto, che in tema di spending review di tutto questo si tenesse conto, senza cedere alla foglia di fico dell’esterofilia. Che sia giusto ridurre il perimetro dello Stato è fuori discussione.

Il problema è dove cominciare. In genere sono più essenziali le funzioni dell’apparato centrale o di quello locale? Dobbiamo iniziare dal Ministero degli esteri o dai 60 mila dipendenti del Comune di Roma? La domanda sarebbe solo retorica se la Presidenza del Consiglio non fosse ridotta ad una pura dependance dell’ANCI. Il che spiega perché si preferisce guardare a Londra invece che a Palermo o Napoli.

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