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ECONOMIA. Tutte le balle del Def di Renzi

 
 

Renzi Pinocchio

Martedì 8 aprile ha presentato il Def e venerdì 18 presenterà il decreto sugli “80 euro in busta paga”: questa la politica economica di Matteo Renzi. Poi si è dato alla campagna elettorale, girando come una trottola per le città italiane e invadendo i video con continui interventi a convention, bagni di folla, fuochi pirotecnici.

 

Eppure, le incongruenze del Documento di economia e finanza approvato dal governo preoccupano non poco. Più duro di tutti il Fondo Monetario Internazionale, che ha dichiarato ufficialmente che per essere efficace ai fini della crescita, la riduzione della pressione fiscale deve essere permanente e strutturale, e altrettanto permanenti e strutturali devono essere le relative coperture, da realizzare attraverso tagli alla spesa pubblica. Ebbene, le misure contenute nel Def non sono per niente coerenti con queste prescrizioni basilari. Vediamo perché.

 

 GLI “80 EURO IN BUSTA PAGA”

euro-80

Nasce come il “taglio dell’Irpef”, ma con il passare dei giorni si parla sempre più di “bonus Irpef”. E, in quanto “bonus”, la misura non presenta i caratteri della strutturalità. Al momento, infatti, essa appare solo un’elargizione di denaro una tantum: una misura elettoralistica, assolutamente inutile ai fini della crescita.

 

E serpeggia il dubbio che sia anche incostituzionale. Per quel che si sa, infatti, il “bonus Irpef” riguarderà solo i lavoratori dipendenti con redditi compresi tra 8.000 e 25.000 (circa 10 milioni di persone: il 24,8% del totale dei contribuenti Irpef, pari a 41,4 milioni). Non è chiaro cosa il governo intenda fare per i cosiddetti “incapienti” (4,2 milioni di persone).

Certamente sono esclusi dalla “mancia” gli artigiani, i commercianti, i liberi professionisti, i pensionati, le partite Iva. Quel ceto medio e medio-basso, cioè, attivo e non attivo, più colpito dalla crisi. Una fascia di elettorato assolutamente maggioritaria che, evidentemente, però, al presidente del Consiglio non interessa.

Se si considera, poi, l’aumento della Tasi, che colpisce l’80% di famiglie italiane proprietarie di prima casa, ai lavoratori dipendenti destinatari del “bonus Irpef” andrà via almeno metà dell’ammontare annuo di quest’ultimo. Ancora peggio andrà a tutti gli altri, che abbiamo visto essere la maggioranza, e che subiranno solo l’incremento di tassazione.

 

 

LE COPERTURE

Yes, we cut

Quel che è peggio è che le coperture sono fatte attraverso aumenti una tantum di tasse e non attraverso tagli strutturali di spesa, oltre ad essere tutte assolutamente aleatorie e incerte, nei tempi e nelle quantità.

Il maggior gettito Iva derivante dai pagamenti dei debiti della Pa dipende da quanto lo Stato effettivamente riuscirà a pagare (se pagherà); sull’aumento della tassazione delle quote rivalutate di partecipazione al capitale della Banca d’Italia pesano i rilievi già sollevati dalla Commissione europea sull’intera operazione, nonché quelli del governatore Visco; e la natura, la descrizione e l’effettività dei 4,5 miliardi di tagli da Spending review sono come la ricetta della Coca Cola: segrete.

 

 

IL PAGAMENTO DEI DEBITI DELLA PA

Renzi Trick

La prima promessa mancata di Renzi: nella conferenza stampa di lancio della politica economica del governo, il 12 marzo, il presidente del Consiglio aveva annunciato il pagamento entro luglio 2014 di 68 miliardi di debiti della Pa, che si aggiungevano ai 22 già pagati dal governo Letta, per smaltire lo stock di debiti pregressi stimato in un totale di 90 miliardi. Ebbene, nel Def è previsto il pagamento solo di 13 miliardi. Perché così pochi? Qual è il motivo del cambio di rotta? Su questo argomento il governo glissa.

 

Passiamo al secondo punto critico relativo ai pagamenti: il gettito Iva che ne deriva, e che il governo intende utilizzare come copertura per il “bonus Irpef”. Perché possa realizzarsi, infatti, il maggior gettito Iva derivante dal pagamento dei crediti vantati dalle imprese richiede la preventiva identificazione di debiti liquidi ed esigibili delle pubbliche amministrazioni, nonché la previsione di una clausola di salvaguardia che assicuri una copertura finanziaria “di riserva” immediatamente attivabile qualora non si realizzi il maggior gettito previsto.

In ogni caso, esso si configurerebbe non come afflusso di risorse nuove, bensì come anticipazione di somme che sarebbero entrate comunque nel bilancio dello Stato.

 

L’AUMENTO DELLA TASSAZIONE DELLE QUOTE RIVALUTATE DI PARTECIPAZIONE AL CAPITALE DELLA BANCA D’ITALIA

Robin Renzi

Lo ha detto in maniera molto chiara il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, lo scorso sabato: “Il raddoppio della tassazione sulle quote di Bankitalia può avere un impatto che riguarda sicuramente la disponibilità dei fondi con cui le banche fanno credito e la possibilità nel tempo di utilizzare la rivalutazione del capitale per fini di vigilanza”. Significa che le banche si rivarranno dell’aumento di tassazione sui clienti, aumentando il costo del credito. Leggi: credit crunch. Forse a questo Matteo Renzi non aveva pensato, tutto preso dall’impatto mediatico che avrebbe avuto lo slogan: “Pagano le banche!”. E il ministro dell’Economia e delle finanze, Pier Carlo Padoan, da Washington, risponde imbarazzato e insicuro: “Sicuramente si potrà parlare dei provvedimenti se e quando saranno adottati”.

 

LA SPENDING REVIEW

 

Basta dire che i dirigenti pubblici guadagneranno, al massimo, come il Presidente della Repubblica? A proposito, questa regola varrà anche per gli Enti locali e i dirigenti delle società partecipate da questi ultimi? Ed ancora: quanto valgono quei tagli? Si è parlato di 400 milioni. E i restanti 4,1 miliardi annunciati, da dove verranno fuori?

 

Al contrario di quanto emerge dai documenti e dalle dichiarazioni di intenti, il massiccio ricorso alla Spending review dovrebbe avvenire in modo puntuale e mirato, tenendo anche conto che già la legislazione vigente prevede una serie di riduzioni di spesa di importo elevato (e crescente nel prossimo triennio).

Il governo, pertanto, nel definire i nuovi tagli dovrebbe contestualmente chiarire come effettuare quelli già disposti in precedenti provvedimenti normativi, che ancora attendono di essere implementati. Se ciò non accadrà, prefigurare il ricorso a tagli di carattere lineare della portata annunciata da Renzi equivarrebbe ad esporre a gravi rischi il quadro di finanza pubblica.

 

I DATI MACRO: LA DISOCCUPAZIONE

Ricordiamo tutti le mirabolanti dichiarazioni del presidente del Consiglio da Londra il 1° aprile: “Vedrete nei prossimi mesi come il cambiamento nel mercato del lavoro porterà l’Italia a tornare sotto il 10% nel tasso di disoccupazione”. “Entro il 2018”, aveva rettificato poi Renzi, dopo un nostro intervento in cui spiegavamo che la disoccupazione in Italia sarà in aumento ancora per un intero anno, in ragione del fatto che i nuovi posti di lavoro cominceranno a manifestarsi solamente a ripresa consolidata. E che passare dal 13% (in aumento) a sotto il 10% nel tasso di disoccupazione significherebbe creare in pochi mesi almeno 1 milione di posti di lavoro, che neanche Mandrake ci riuscirebbe.

Nel Def il tasso di disoccupazione previsto per il 2018 è l’11%: seconda promessa mancata di Renzi, dopo quella, che abbiamo già visto, dei pagamenti dei debiti della PA.

 economia

I DATI MACRO: LA CRESCITA

Nel Def, il governo colloca la crescita del Pil italiano per il 2014 a +0,8%, contro il parere della Commissione europea, che stima +0,6%. Non è chiaro se l’ipotesi prevista dal governo (ripetiamo: +0,8%) risponda alle tendenze spontanee dell’economia o non incorpori, invece, i possibili effetti del “bonus Irpef” per i redditi più bassi.

Nel primo caso, l’esecutivo dovrebbe fornire le motivazioni che lo portano a prevedere una crescita maggiore rispetto alle previsioni convergenti di tutti gli Organismi internazionali, a partire, abbiamo visto, dalla Commissione europea.

Nel secondo caso, invece, se trattasi di un obiettivo programmatico, la manovra che genera quello 0,2% in più deve essere contenuta nello stesso Def. Altrimenti si costringe il Parlamento ad approvare un documento che non contiene gli elementi essenziali per poter decidere in modo consapevole.

 

L’eventuale effetto espansivo della manovra, per il momento soltanto abbozzata, infatti, dipenderà dalle coperture finanziarie. A seconda di quelle che il governo concretamente sceglierà, gli effetti possono essere espansivi, neutrali o, addirittura, depressivi.

Fino a quando non ci sarà il decreto, annunciato per venerdì prossimo (venerdì santo), qualsiasi valutazione sull’attendibilità del dato sulla crescita del Pil italiano non può che essere sospesa, con il rischio di dover rivedere a ribasso quello 0,8% su cui si basa tutto l’impianto macroeconomico del Def.

 

I DATI MACRO: IL DEFICIT STRUTTURALE

Tasto dolente. Il dato più grave di tutti: il deficit strutturale. Un numero: -0,6% nel 2014, raddoppiato rispetto al -0,3% delle ultime previsioni governative dello scorso settembre. Significa che abbiamo sforato. Ma Matteo Renzi è bravo a non farlo notare e a mostrarsi comunque spavaldo, escludendo qualsiasi ipotesi di manovra correttiva.

 

Significa che non solo non rispettiamo il principio del pareggio di bilancio previsto dalla nostra Costituzione (indebitamento netto strutturale/Pil = 0%), ma non siamo neanche in quella banda di oscillazione di mezzo punto (close to balance) concessa dal Fiscal Compact.

 

Ne deriva che, ai sensi della Legge n. 243/2012 che contiene le “Disposizioni per l’attuazione del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione”, il governo, allontanandosi di fatto dall’obiettivo del pareggio di bilancio, deve sentire la Commissione europea per avviare una complessa procedura in cui siano evidenti le cause che hanno determinato lo scostamento e definire un conseguente piano di rientro. L’ha fatto Renzi? E a quali “eventi eccezionali”, gli unici che potrebbero giustificare lo scostamento, farà riferimento?

 

Una volta avuto l’ok dalla Commissione europea, poi, la deliberazione “con la quale ciascuna Camera autorizza lo scostamento e approva il piano è adottata a maggioranza assoluta dei relativi componenti”.

 

Il valore di queste norme è evidente. Sono state costruite per evitare che una semplice maggioranza parlamentare possa utilizzare lo strumento della finanza pubblica per fini impropri, specie se di natura elettoralistica, che andrebbero a danno dell’intero paese.

Le sa, Matteo Renzi, queste cose? E in ogni caso, ce l’ha la maggioranza assoluta alla Camera e al Senato?

 

I DATI MACRO: DEBITO PUBBLICO

L’ultima chicca. Non meno grave delle altre. Il Documento di economia e finanza approvato dal governo contiene dati relativi al rapporto tra debito pubblico e Pil rivisti in enorme rialzo rispetto alle previsioni di settembre: nel 2014 esso sale al 134,9% dal 132,8% (+2,1%), nel 2015 al 133,3% dal 129,4% (+3,9%) e nel 2016 al 129, 8% dal 125% (+4,8%).

E dire che la disciplina europea prevede che questo rapporto segua un percorso di riduzione della differenza tra il livello del debito nazionale (abbiamo visto 134,8% nel 2014) e la soglia europea (60%) di 1/20 all’anno. E dire che nell’ultima comunicazione del 5 marzo 2014, in materia di prevenzione e di correzione degli squilibri macroeconomici, la Commissione europea aveva ricordato all’Italia per l’ennesima volta “la necessità di ridurre l’elevatissimo rapporto debito pubblico/Pil ad un ritmo adeguato”. Il Documento di economia e finanza non ne tiene conto in alcun modo.

 

Evidentemente il governo fa orecchie da mercante. E a Matteo Renzi basta fare campagna elettorale. Si è tolto il peso dell’approvazione del Def in Consiglio dei ministri e sembra che l’argomento non lo interessi più. Il provvedimento seguirà il suo iter in Parlamento e a lui poco importa se i conti pubblici italiani sono a rischio. Ora ha in mente solo la presentazione del decreto sul “bonus Irpef” di venerdì e con quello spera di vincere le elezioni europee. Dei problemi che da esso possono derivare non vuol saperne. A noi il compito di svelare l’imbroglio e di riportare gli italiani alla realtà.

 

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