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GERMANIA. Tutte le mosse per arginare lo strapotere tedesco in Europa

 
 

Germania

La questione tedesca. Qui vi spieghiamo perché l’egemonia di Berlino è pericolosa, e la sinistra finge di non saperlo per colpire Berlusconi.

 

Esiste una schizofrenia vera o presunta verso Berlino, come ci si interrogava qualche giorno fa a seguito delle dichiarazioni di Silvio Berlusconi? Veramente le accuse, che spesso ritornano da più parti, contro il Paese di Angela Merkel sono ingiustificate? E se così fosse, come mai si è di fronte a un coro unanime, che abbraccia Paesi ed etnie tra loro così lontane?

La domanda andrebbe posta non solo ai greci o ai ciprioti – le principali vittime del rigore che porta le stimmate della Bundesbank – ma agli spagnoli, ai francesi, agli inglesi, agli americani e, solo alla fine, agli stessi italiani. Che pure hanno qualcosa da recriminare nei confronti del “secolo tedesco”.

Silvio Berlusconi è stato duramente redarguito dai benpensanti della sinistra per aver ricordato i campi di concentramento. E allora che dire del bestseller inglese di Brendan Simms (“Europe: The struggle for supremacy”) che dedica centinaia di pagine a condannare la continua pulsione tedesca (dal 1453 ad oggi) verso la supremazia europea?

Non è così, assicura Angelo Bolaffi, nella seconda edizione del suo pamphlet “Cuore tedesco”. Il vero pericolo è la Russia di Putin e la sua storica vocazione espansionistica. I tedeschi, al contrario, fanno da argine. Quindi smorzate i toni e cercate di comprendere quanto pesante sia il loro fardello. Tanto più che gli stessi tedeschi non inseguono minimamente il sogno di un dominio. La loro è “un’egemonia riluttante”, all’insegna del continuo disimpegno in campo internazionale. “Ohne mich”: senza di me, sono soliti ripetere quando si tratta di tirarsi fuori dalle beghe grandi o piccole della polveriera internazionale.

Punti di vista diversi, che riflettono le più antiche contraddizioni del “secolo breve”. I tedeschi saranno anche portatori di “un’egemonia riluttante”, ma quest’elemento rappresenta semmai un’aggravante. Citando Charles Kindleberger, uno dei principali storici americani, Guido Carli era solito dire che l’egemonia comporta onori e oneri.

Se si è la principale potenza economica – ed è indubbio che la Germania lo sia nei confronti del resto dell’Europa – allora non ci si può limitare ad incassare le cedole dei propri investimenti. Al contrario si deve impostare una politica economica in cui tutti i soci – specie quelli più deboli – possano riconoscersi. Altrimenti la tentazione di mandare tutto all’aria diventa incontenibile. Fu l’errore compiuto dagli Stati Uniti a metà degli anni ’20. Erano divenuti la più forte potenza occidentale. Non assunsero le redini del comando, limitandosi a curare il proprio orticello interno. Il risultato fu la crisi del 1929.

Questi lontani precedenti devono far riflettere. Prendiamo ad esempio la BCE. Il suo statuto è modellato su quello della Bundesbank: a sua volta così diverso da quello della FED. Target principale è il controllo del processo inflazionistico. Evento traumatico della storia tedesca, che si trasforma nel paradigma dell’eurozona. E così, mentre la FED americana può operare per favorire il rilancio economico del più grande Paese occidentale, la BCE si trasforma in una palla al piede, che negli anni della crisi economica e finanziaria solo la fermezza di Mario Draghi, pur tra mille difficoltà, è riuscita a sollevare, ma non a rimuovere.

Nel frattempo, tuttavia, le varie asimmetrie che si accompagnano a questo incaglio non penalizzano, ma favoriscono ulteriormente l’economia tedesca, radicando ancora di più le antiche concezioni. Il risultato è un circolo vizioso che consolida le posizioni di vantaggio e penalizza quelle dei Paesi meno fortunati.

Sul piano puro dell’egemonia buona, quella che sarebbe necessaria, le conclusioni sono sconfortanti. La BCE, che doveva combattere l’inflazione, sta alla fine favorendo, seppure in modo inconsapevole, la deflazione. E questo perché l’ortodossia, che si rafforza nella difesa degli interessi legati allo status quo, impedisce ogni innovazione.

Quando Silvio Berlusconi dice che l’Europa ha bisogno di una BCE che funzioni in modo diverso, che crei moneta per combattere la deflazione, che emetta Eurobond per vincere le asimmetrie altrimenti ineliminabili della politica monetaria, non dà sfogo a una vena populista, come subito la sinistra si affretta a dire. Al contrario, con queste affermazioni Berlusconi difende i grandi interessi nazionali.

Che tutto ciò non venga compreso non è sorprendente. Una vecchia canzone comunista diceva, alludendo all’URSS di una volta: “oltre le Alpi e il mare un’altra patria c’è”. Oggi, per fortuna, quello spettro è stato esorcizzato. Ma almeno per una parte della sinistra italiana l’esigenza di una dipendenza dall’estero non è ancora venuta meno.

Non c’è soluzione alla crisi europea se non cambierà la politica economica tedesca. Se la Germania non si deciderà a reflazionare la propria economia. Vale a dire a utilizzare il suo clamoroso surplus della bilancia dei pagamenti per rilanciare la domanda interna e quindi favorire una ripresa sostenibile dell’intero continente, grazie a un miglioramento del clima generale.

Se questo non avverrà, la stessa politica monetaria, nonostante gli sforzi di Mario Draghi, non potrà avere gli effetti sperati. Le aziende tedesche continueranno a godere del vantaggio di tassi di interesse negativi in termini reali, mentre i concorrenti (gli altri paesi europei) saranno gravati da oneri aggiuntivi. Un freno devastante per i possibili investimenti che dovrebbero rimettere in moto il processo di accumulazione.

Ma c’è un argomento ulteriore: il tasso di cambio. L’euro è troppo forte rispetto alle altre monete. L’industria europea perde, pertanto, terreno rispetto ai concorrenti esteri. E non parliamo solo delle economie emergenti, capaci tuttavia di competere sempre di più nella fascia alta delle produzioni. Gran parte della ripresa americana si deve alla crescita delle sue esportazioni, che alimentano un tasso di sviluppo maggiore, riportando debito e deficit lungo un sentiero sostenibile, grazie all’aumento del PIL.

Si dirà: è da tempo immemorabile che questa situazione perdura. Per convincere la Bundesbank, il gabinetto occulto che domina la politica economica tedesca, si sono dimostrate vane le pressioni degli Stati Uniti e degli organismi internazionali – il FMI innanzitutto – esercitate negli anni passati. Ma allora tutto era reso meno drammatico da un clima congiunturale positivo, che lasciava solo agli specialisti la percezione di quanto si poteva fare e, invece, non veniva fatto.

Da vero paese egemone, per prima tra gli Stati dell’area euro nel 2003 la Germania (insieme alla Francia) ha violato le regole europee; ancora nei primi anni 2000, con la creazione dei Mini-Jobs, ha cominciato a imbrogliare le statistiche sul mercato del lavoro tedesco; con la sua KFW (l’equivalente della Cassa Depositi e Prestiti italiana), che figura come organismo privato, manipola i dati sull’esatto ammontare del debito pubblico; da quando è entrata nell’euro, la Germania gode di un surplus della bilancia dei pagamenti, derivante da un euro “tedesco” di fatto sottovalutato rispetto ai suoi fondamentali economici e che non redistribuisce, nella totale assenza di solidarietà fra gli Stati dell’Unione.

A questi opportunismi, furberie e atteggiamenti leonini si aggiunge il fatto che la Germania non riforma il suo sistema finanziario; blocca in Europa l’unione bancaria, economica, politica e di bilancio; blocca il funzionamento del Fondo Salva-Stati; si pone in perenne contrasto con la politica monetaria della Banca Centrale Europea; negli anni della crisi ha imposto, senza nessuna analisi preliminare, condivisa e approfondita, la dottrina di matrice protestante per cui ai paesi in difficoltà si è detto: “Lo spread è alto, è colpa tua, fa’ i compiti a casa”. Per non parlare proprio dello scoppio dello spread, dovuto sempre alle banche tedesche, e della conseguente adozione tra dicembre 2011 e marzo 2013, nell’ordine, del Six Pack, del Fiscal Compact e del Two Pack: Trattati e Regolamenti pensati e fatti approvare con la pistola dello spread tedesco puntata alla tempia dei paesi sotto attacco speculativo. Tutti provvedimenti nati sotto l’egemonia tedesca per continuare a favorire la visione germanocentrica dell’Europa.

Se ciò non bastasse, l’industria tedesca, grazie alla delocalizzazione nei Paesi una volta appartenenti al blocco sovietico, poteva ottenere prodotti intermedi a costi stracciati, che poi assemblava in loco. Il conseguente risparmio di costo consentiva una politica dei prezzi assolutamente concorrenziale.

Per averne una dimostrazione basti guardare ai fatturati dell’industria dell’auto. Le grandi case automobilistiche europee – dalla ex FIAT alla Renault – non battono un chiodo. Mercedes o BMW dominano i mercati, con sconti che arrivano fino al 25% dei prezzi di listino. Il tutto garantito dalla qualità “made in Germany”. Anche se gran parte delle componenti è realizzata fuori dai confini nazionali (abbiamo visto: Paesi ex sovietici), il controllo tedesco è comunque rigoroso. Sono i tecnici tedeschi che sovraintendono alla produzione e accettano solo manufatti che ne rispettano gli standard.

Che si sia trattato di un modello, perfido quanto si vuole, ma efficiente è fuori discussione. Per consolidarlo negli anni, i tedeschi dovevano poter contare, soprattutto, sull’appoggio francese. Alle insidie dei confini orientali – non solo la vecchia DDR di allora, ma la Russia di Putin di oggi – non si poteva contrapporre una Germania disarmata. La Francia, con la sua “force de frappe”, assicurata dal possesso dell’atomica, poteva pertanto essere il deterrente immediato, da integrare con il sostegno di tutto l’Occidente: Stati Uniti in testa. Si spiega così la cosiddetta “entente cordiale”: quell’asse franco-tedesco che ha sempre scandito gli equilibri europei. Che per la Germania ha avuto, ovviamente un costo, ma era il minimo da sopportare.

Non si dimentichi la grande crisi del ’92. Allora il crollo del sistema monetario europeo, episodio in cui le responsabilità tedesche furono rilevanti, comportò la crisi delle principali monete – lira, sterlina, peseta ed escudo portoghese subirono una svalutazione devastante – ma il franco francese fu salvato, grazie all’intervento della Bundesbank. Che una volta tanto si dimostrò più che generosa.

Che cosa è cambiato nel frattempo? Quasi tutto. La crisi dell’intero continente ha reso evidenti i tratti più odiosi di quell’egoismo nazionale che ha scaricato sugli altri Paesi le proprie contraddizioni non risolte. Non è solo la Grecia che protesta innalzando cartelli che ricordano il passato nazista. Nelle altre capitali europee il peso di quella supremazia, senza egemonia, è sopportato con crescente malessere, che l’elettorato interpreta in chiave anticomunitaria. Populismo, come affermano i benpensanti? Ci sarà anche quello. Ma chi è in grado di tracciare il confine tra presunti irrazionalismi – questo dovrebbe esserne il lato più oscuro – e critica legittima in difesa dei propri interessi nazionali e della propria comunità?

Lo si vada a dire agli stessi francesi dopo il fallimento di Sarkozy prima e di Hollande poi. Se nelle ultime elezioni il “fronte interno tedesco” è crollato a vantaggio delle opposizioni, cosa dovrebbero fare gli italiani, che da Angela Merkel non solo non hanno ottenuto alcunché, ma ne hanno subito i diktat e l’ingiustificato dileggio?

Sono questi i motivi che hanno portato Silvio Berlusconi e Forza Italia a dire no all’Europa tedesca. Non si tratta di ideologia, ma di ragioni economiche. Ed è l’unico argine serio che può essere posto ai populismi dilaganti. Di cui tutti hanno paura, ma che nessuno combatte veramente. Anche perché per combatterli veramente bisogna battere l’egemonismo tedesco.

 

 

RENATO BRUNETTA