Una volta tanto siamo d’accordo con il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, quando per l’Europa dice: “No a chi propone vecchie politiche”. Quando promuove, cioè, un totale cambio di linea rispetto all’appiattimento colpevole, negli anni della crisi, delle istituzioni europee in generale, e della Commissione di Barroso in particolare, rispetto a un’Unione a trazione tedesca, che tanti guai ha portato non solo alla moneta unica e all’idea di Europa in sé, ma anche e soprattutto a quei paesi che via via sono stati al centro delle ondate di speculazione finanziaria.
Proprio per avviare questo cambio di rotta in Europa serve unità bipartisan: una sorta di accordo istituzionale italiano, perché il nostro paese conta più di un partito. A ben analizzare i risultati elettorali, infatti, il nostro è il capo di governo più votato in Ue, ma l’Italia è anche il paese che manda al Parlamento europeo il più alto numero di anti-euro. D’altra parte, il Pd è il primo gruppo nazionale nel Pse e Forza Italia ha un gruppo europeo certamente indebolito, ma pur sempre decisivo per la maggioranza Ppe, magari assieme ai popolari spagnoli.
Su questi 4 fattori, uniti al vuoto delle istituzioni europee, che durerà per buona parte dell’autunno, fino all’insediamento dei nuovi vertici della Commissione, del Consiglio e del Parlamento, nonché dei nuovi commissari, può essere costruita la forza italiana e la gestione di un semestre di presidenza che può assumere un peso decisivo per il futuro dell’Europa.
Perché se da un lato le prime decisioni formali dell’ottava legislatura europea potranno verosimilmente arrivare solo dopo l’insediamento delle nuove istituzioni, il cui processo, già partito in un clima di tensione, abbiamo visto che richiederà qualche mese; dall’altro lato il percorso che porterà all’insediamento e le strategie che lo determineranno dovranno definirsi tutte nei primi mesi di presidenza italiana. Un’occasione unica, quindi, per il nostro paese, per dare l’imprinting non solo al nostro semestre, ma all’intera legislatura europea. E in questa operazione deve valere la collaborazione tra le forze politiche. Si rende necessario, cioè, un idem sentire in Europa, forse ancora più importante dell’idem sentire in Italia.
No alle vecchie politiche europee è anche il senso delle decisioni prese dalla Banca Centrale Europea giovedì scorso quando, insieme ad altre misure “non convenzionali” di politica monetaria, ha tagliato il tasso unico di riferimento a quota 0,15%: il minimo storico. La decisione è stata accolta con entusiasmo dai mercati. Ed è stata certamente una buona notizia, perché dimostra la volontà da parte della Bce di sostenere l’economia nell’eurozona, ma non del tutto una buona notizia, perché vuol dire che la Bce prevede ancora periodi di non crescita nell’area euro e teme la deflazione (riduzione dei prezzi causata dalla riduzione dei consumi).
Quello che il 5 giugno, con la sua decisione, ha chiesto la Bce è di cambiare politica economica in Europa. Ma soprattutto, è il de profundiis della politica economica dell’Europa a trazione tedesca in generale, e dell’Italia subalterna alla Germania degli ultimi governi, Monti e Letta, in particolare. Quando i tassi di interesse sono così bassi vuol dire che le cartucce della politica monetaria della banca centrale stanno finendo. Non resta che sostenere l’economia aumentando la domanda interna (salari, consumi e investimenti): cioè allentando le politiche di bilancio restrittive fino ad ora adottate su imposizione tedesca.
Come in più occasioni segnalato dagli Stati Uniti (da ultimo con il rapporto del Tesoro americano sulla “manipolazione delle valute”, in cui si attribuisce la responsabilità della debolezza dell’eurozona alla Germania e la si inserisce per la prima volta tra i cosiddetti “Key findings”: i paesi pericolosi) e dalle istituzioni internazionali (primo fra tutti il Fondo Monetario Internazionale), la politica economica dell’Europa a trazione tedesca ha distrutto le economie dell’eurozona.
Non solo: la politica economica “sangue, sudore e lacrime” imposta da Angela Merkel ha prodotto una frammentazione dei mercati finanziari, che ha impedito la trasmissione all’economia reale della liquidità immessa nel sistema dalla Bce. Questo significa che la liquidità immessa sul mercato con gli strumenti di politica monetaria non si è trasformata in investimenti da parte delle imprese né in consumi da parte delle famiglie.
Proprio per invertire il segno e per rispondere alla richiesta giunta dalla Banca Centrale Europea, quindi, la strategia di politica economica europea va cambiata profondamente, in senso espansivo.
Il quadro economico congiunturale italiano ed europeo dei primi mesi del 2014 evidenzia come l’incertezza e i problemi strutturali dell’economia europea permangano a 6 anni dalla grande crisi. Questo quadro spiega la necessità di una battaglia politica serrata, da condurre contro l’applicazione acritica di una politica europea errata e attraverso la richiesta di una revisione degli accordi fin qui accettati. Una battaglia politica necessaria non solo all’Italia, ma anche e soprattutto all’Europa, specie nei suoi rapporti con le altre potenze economiche.
Si deve essere consapevoli che il rischio non è solo quello della disintegrazione dell’Unione monetaria e dell’Unione europea, ma quello di trascinarla in uno scontro frontale con gli interessi delle altre grandi economie del mondo. Gli Stati Uniti hanno lanciato in diverse occasioni negli ultimi mesi più di un segnale in tal senso. Gli Stati Uniti hanno dimostrato di avere nei confronti dell’Europa tedesca degli ultimi anni la stessa insofferenza che hanno le popolazioni degli Stati dell’Unione.
La prossima Commissione europea, il prossimo Consiglio e il nuovo Parlamento, pertanto, devono farsi interpreti di queste difficoltà. E dalle enunciazioni di principio bisognerà passare ai fatti: completare l’architettura istituzionale europea con le unioni bancaria, economica (Eurobond), politica e di bilancio; modificare lo Statuto della Bce per assegnarle un ruolo di prestatore di ultima istanza, al pari della Federal Reserve e delle altre più importanti banche centrali del mondo; rivedere i Trattati e i Regolamenti sottoscritti con la pressione politico-psicologica della crisi.
E infine: reflazione, vale a dire aumento della domanda interna, quindi dei consumi, degli investimenti, dei salari, delle importazioni e, di conseguenza, della crescita, per il proprio paese e per gli altri paesi. È questa la parola d’ordine che deve segnare il cambio di passo nella politica economica europea.
La Germania deve reflazionare per cause di forza maggiore, cioè per rispondere alla procedura di infrazione aperta della Commissione europea nei suoi confronti a causa dell’eccessivo surplus della bilancia dei pagamenti (netta prevalenza delle esportazioni sulle importazioni). Gli altri paesi devono farlo per cambiare la politica economica germano-centrica dell’austerità e del rigore cieco ed imboccare la strada della ripresa e dello sviluppo, tanto al proprio interno quanto a livello di intera eurozona (conseguenza della crescita in ogni singolo Stato).
Come? Attraverso lo strumento dei “Contractual agreements”: accordi bilaterali tra i singoli Stati e la Commissione europea, per cui le risorse necessarie per l’avvio di riforme volte a favorire la competitività del “sistema paese”: non rientrano nel calcolo del rapporto deficit/Pil ai fini del rispetto del vincolo del 3%; rientrano nell’alveo dei cosiddetti “fattori rilevanti” per quanto riguarda i piani di rientro definiti dalla Commissione europea per gli Stati che superano la soglia del 60% nel rapporto debito/Pil.
Concretamente, ciascun paese: definisce, sulla base delle proprie caratteristiche e specificità, le riforme da implementare al proprio interno, per 1-2 punti di Pil; adotta simultaneamente le riforme definite attraverso lo strumento dei “Contractual agreements”; beneficia degli effetti positivi delle proprie riforme; beneficia, altresì, degli effetti positivi delle riforme adottate dagli altri Stati, attraverso l’aumento delle esportazioni. Risultato: ogni singolo Stato tornerà a crescere, con regole nuove, moderne, competitive; l’intera eurozona tornerà a crescere, con regole nuove, moderne, competitive. Un gioco a somma positiva. Per tutti.
Per realizzare tutto quanto detto servono istituzioni europee forti, non suddite dei tedeschi. In questo passaggio l’Italia ha un ruolo fondamentale. Basta sangue, sudore e lacrime, ma grandi riforme, grandi progetti di ammodernamento e di rinnovamento del continente e del paese. Basta con l’ossessione di Maastricht. New deal! In Italia e in Europa. Finirla con gli egoismi, gli egemonismi. Regole e spirito nuovo.
Se questa sarà la linea europea, allora, non può non derivare un cambio di politica economica anche in Italia. La logica delle mance, che ha consentito a Renzi di vincere le elezioni, deve finire. Occorre una riforma fiscale seria, con la redazione dei decreti legislativi di attuazione della delega fiscale approvata in via definitiva dal Parlamento già da alcuni mesi, e non “surrogati”, come ha fatto notare la Corte dei Conti. Serve una strategia definita e definitiva sulla casa, che restituisca ai cittadini il diritto di sapere quali tasse si pagano, quando si pagano, per quali importi, e di poter programmare le proprie spese. Serve aumentare la produttività del lavoro e la competitività delle imprese, per combattere una disoccupazione ormai intollerabile, anche attraverso la detassazione e la decontribuzione delle nuove assunzioni di giovani. Serve la riforma della Pubblica amministrazione, che includa, tra l’altro, il passaggio dalle autorizzazioni ex ante ai controlli ex post. E la riforma della giustizia.
Tutti interventi annunciati dal presidente del Consiglio, ma rimasti irrealizzati o rinviati a leggi delega dall’iter lungo e complicato in Parlamento. Su tutto questo Renzi deve fare autocritica. Se, con il supporto di tutte le forze politiche, riesce a procurare un’inversione di rotta in Europa, non può non essere coerente in Italia.
RENATO BRUNETTA