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RIFORME. La crisi del sistema Italia impone una grande riforma: il presidenzialismo. L’assenteismo e altre ragioni urgenti e drammatiche per farlo subito. E insieme

 
 

RIFORME

Dei tanti numeri, che hanno caratterizzato il recente ballottaggio elettorale, la cifra che più colpisce è quella della partecipazione al voto: meno della maggioranza (49,5 per cento) degli aventi diritto. Un dato che inquieta e rende evidente una disaffezione diffusa. Il venir meno di ogni speranza nelle prospettive stesse di un possibile cambiamento. Questo dato deve far premio su ogni altra considerazione.

Poi vi saranno sindaci di centro-destra o di centro-sinistra. Ed anche grillini. Ma sono elementi di contorno che non cambiano il significato più profondo di una sconfitta complessiva. E’ il sistema politico italiano che regge sempre meno alla prova di una democrazia poco incisiva sul decorso di una crisi, rispetto alla quale non si vedono né proposte, né soluzioni. Lo smarrimento di un’intera classe dirigente che trascina con sé i propri governati.

Sei anni di crisi economica e sociale stanno erodendo le basi stesse della nostra democrazia. Creano sconforto ed abbandono. Inducono al disincanto. E con esso all’inedia. Non ci si consoli con i confronti internazionali. Quello delle astensioni non è un segno di modernità.

L’Italia non è la Francia, né gli Stati Uniti d’America: dove la scarsa partecipazione alle regole della democrazia è un fatto fisiologico. In questo caso siamo nella patologia. Negli altri Paesi esiste da tempo un’Amministrazione forte, in grado di regolare il complesso metabolismo sociale. Sia la centralità di un mercato, governato da presidi istituzionali forti – si pensi alla FED, la banca centrale americana – o alla struttura “colbertista” dello Stato francese. In Italia, invece, da tempo immemorabile se viene meno la politica, un’amministrazione pubblica, pletorica ed inefficiente, prende ulteriore sopravvento, accentuando gli elementi di crisi.

Ancora più sorprendente è il fatto che questa volta si votava per i sindaci. Che, nell’immaginario collettivo, memori della grande crisi degli anni ’90, dovevano rappresentare quel che restava della “nuova politica”. Un rapporto più diretto con il territorio. Un più forte pragmatismo ed una voglia di fare. Una sensibilità accresciuta rispetto alle istanze più immediate dei propri elettori. Anche questa grande illusione ha subito un colpo formidabile.

Vi sono ragioni di fondo che spiegano il fenomeno. Nel 2013, secondo i dati della Ragioneria Generale dello Stato, le addizionali comunali sono aumentate del 20,3 per cento, contro un aumento di tutte le altre imposte dell’1,7 per cento.

Nei primi due mesi del 2014, sempre secondo la stessa fonte, per effetto di una perversa congiunturale temporale connessa con le scadenze dei pagamenti, le addizionali comunali sono aumentate ancora dell’11,9 per cento, e l’IMU, addirittura del 444 per cento.

Sullo sfondo è poi la crisi di alcune grandi realtà, come Napoli, che danza sull’orlo del default, e Roma, alle prese con 24.000 dipendenti – la terza azienda nazionale – che reclamano il pagamento di un salario accessorio, che dovrebbe essere elemento incentivante di una maggiore produttività e che, invece come da tradizione, è distribuito a pioggia. E mentre scioperano vigili urbani e maestre d’asilo, ottenere un semplice documento da parte dei vari uffici comunali rappresenta una defaticante corsa agli ostacoli, che richiede tempo, energie, soprattutto un esercizio di pazienza degno di maggior causa.

Basterebbero questi esempi per dimostrare le ragioni della sfiducia profonda che le recenti elezioni hanno evidenziato. La sensazione che questa struttura politica – amministrativa non regga più. Che tutto si perpetui nell’indifferenza generalizzata, foriera di ulteriori disastri.

Si può invertire la rotta di una barca che fa acqua da tutte le parti? Forse siamo ancora in tempo, ma solo se vi sarà uno scatto di reni. Se istituzioni, ormai devastate dall’usura, troveranno nuova linfa in un cambiamento radicale. La nostra chiave, non solo politica ma interpretativa, è che occorra esaltare il momento della governabilità.

Dare potere a chi è in grado di decidere e poi, secondo l’insegnamento di Carl Popper, strutturare il sistema politico in modo tale da poter rimuovere il responsabile, se non si dimostrerà all’altezza dei compiti che il popolo gli ha affidato.

La forma che meglio incarna questi principi, nella complessa e contraddittoria realtà italiana e dopo i mille esperimenti tentati in più di 60 anni di vita politica, è quella del presidenzialismo. Un Presidente della Repubblica, capo dell’Amministrazione: in grado di imporre all’intera struttura organizzativa dello Stato, senza mille compromessi, regole di funzionamento al servizio dei cittadini.

Un potere controllato, da un sistema di check and balance, come dicono gli inglesi, che non porti tuttavia alla paralisi operativa. Ma che rappresenti il giusto compromesso tra la voglia di partecipazione e l’efficacia delle necessarie decisioni.

Una svolta, come è stata quella che ha caratterizzato, nei momenti di crisi, la vista politica di tanti altri Paesi. A partire dalla V Repubblica francese, per finire con Tony Blair e Gerhard Schröder. Scelte impegnative ma non impossibili: se avverranno nel quadro di una rinnovata intesa delle forze politiche interessate a salvare il Paese.

Disposte a mettere in piedi quel governo di salute pubblica che è la premessa indispensabile di qualsiasi discorso futuro.