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ECONOMIA. La letterina di Draghi a Renzi, che la censura del giornalismo servile ha cancellato, demolisce il mercato del lavoro da Urss rediviva che ha in mente il governo

 
Draghi Renzi

Una grande congiura del silenzio ha avvolto l’ultima lettera di Mario Draghi al Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Nulla a che vedere con l’eco della famosa missiva del 5 agosto 2011, che dette luogo alla successiva slavina politico-istituzionale culminata con le dimissioni di Silvio Berlusconi da Presidente del Consiglio.

Segno dei tempi e del diverso amore che la stampa italiana riversa a favore del golden boy fiorentino. Coccolato, vezzeggiato, a volte anche tollerato, ma mai sottoposto a quel controllo che una stampa libera dovrebbe avere per qualsiasi governante. A prescindere dal suo colore politico. Decisamente non siamo gli Stati Uniti. Nemmeno la Francia o l’Inghilterra.

I pochi, che hanno dato rilievo a quella lettera, si sono soffermati sugli aspetti più appariscenti: lo stop al taglio degli stipendi degli alti gradi della Banca d’Italia, che secondo il decreto sul bonus degli 80 euro, non dovrebbero superare il tetto massimo dei 240 mila euro. Da lì una serie di considerazioni con quel pizzico di perbenismo che simili argomentazioni comportano.

Stipendi troppo elevati. Costi eccessivi della struttura. Giustizia sommaria e voglia di un generale livellamento, che prescinde da ogni altra considerazione: il ruolo svolto da ciascuno, le responsabilità, i livelli di produttività che ne sono a fondamento.

Mario Draghi contesta tutto questo. Sul piano giuridico ricorda come ogni decisione che riguarda la Banca d’Italia, per effetto dei Trattati europei, deve essere preventivamente discussa con la BCE. Cosa che non è avvenuta. La decisione di includere, seppure con alcune cautele anche Banca d’Italia nel nuovo regime, è stata comunicata a babbo morto.

Quando il decreto legge era stato già presentato alle Camere per la conversione. Ragioni d’urgenza: è stata la risposta imbarazzata del governo italiano. Ma le motivazioni delle “specifiche ragioni d’urgenza” – precisa con un pizzico di cattiveria Mario Draghi – sono state omesse.

Fin qui una schermaglia procedurale che la dice lunga sui rapporti che l’Italia di Renzi intende avere con le strutture europee. Si alternano momenti di totale sudditanza, come fu il colloquio con Angela Merkel, alla pura supponenza: “se l’Europa ci chiede una manovra correttiva, non aderiremo alla richiesta”.

Mentre gli altri ministri, soprattutto quello degli esteri per non parlare di quello per i rapporti comunitari semplicemente soppresso, hanno il ruolo che ha il coro nelle tragedie greche. Non è un buon viatico. Il rapporto con l’Europa deve essere duro – fino al voto contrario nelle decisioni che contano – ma rispettoso dei Trattati che l’Italia ha liberamente sottoscritto.

Il punto centrale della lettera di Draghi è tuttavia un altro. Riguarda un problema di fondo dell’economia italiana. Nelle regole internazionali, universalmente praticate, i salari riflettono la sottostante produttività. E’ questo il parametro che consente di giudicare se una retribuzione sia eccessiva o meno. Qualsiasi tentativo di definire soglie uguali per tutti è distorsivo. Penalizza il merito, soffoca l’iniziativa individuale, si traduce in contraccolpi dannosi per l’intera economia.

Valga per tutti l’esperienza del passato.

Il punto unico di scala mobile degli anni ’70 provocò un appiattimento retributivo senza precedenti, che si risolse in un tasso di inflazione devastante. Comportò il crollo del valore della moneta ed una crescita di quel deficit e di quel debito che, ancora oggi, rappresenta la palla al piede della società italiana.

Allora la misura poteva ancora avere una qualche giustificazione. Il ciclo economico era controllato dalle istituzioni nazionali. Il movimento dei capitali era frenato da rigide regole amministrative.

Oggi invece l’apertura al mondo dell’economia italiana è completa. Non a caso siamo nella fase della globalizzazione integrale.

Insistere su regole domestiche, che negano in radice le forme moderne dell’organizzazione economica, significa solo perseverare in un’anomalia – una delle tante – che relega il nostro Paese – nemmeno fossimo la vecchia URSS – in una posizione sempre più marginale.

Questo significa, forse, non intervenire sulla struttura del salario? E’ l’esatto contrario. Negli anni si sono accumulati errori ed incongruenze, frutto di vicende storiche complesse e dei tanti corporativismi che innervano la società italiana.

Basti pensare al peso del prelievo fiscale, riflesso del costo astronomico di un apparato amministrativo pletorico ed inefficiente. Ma quale deve essere la direzione della necessaria riforma? Deve essere lumpen, come direbbero i teorici del marxismo, o puntare, invece, sulla professionalità, il merito? In definitiva le differenze, che sono il tratto inalienabile della natura umana, come insegna non Dossetti, ma la più moderna dottrina della Chiesa? Noi, con Mario Draghi, non abbiamo dubbi.

Ed è questa la principale differenza tra noi e Matteo Renzi.