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POLITICA. La Germania è brutale, ma la vera minaccia oggi non è contro Renzi ma contro Draghi. Intanto il governo faccia le riforme, ma quelle vere, non quelle esibite finora sulla carta

 

 

RIFORME

Era facile prevedere – cosa che abbiamo fatto – che il discorso di Matteo Renzi, al Parlamento europeo, non sarebbe rimasto senza conseguenze. Un approccio diverso, centrato sul rispetto non asimmetrico dei Trattati – i tedeschi devono reflazionare la loro economia avendo un eccesso di surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti – avrebbe forse prodotto risultati diversi. Avrebbe, in altre parole, chiamato Angela Merkel sul banco degli imputati. Colpa forse più lieve, rispetto ai Paesi che non riescono a mantenere le loro economie – per quanto riguarda deficit e debito – nel solco dei parametri previsti. Ma pur sempre colpa. O almeno, come insegna la giurisprudenza italiana: concorso di colpa.

Renzi, invece, dixit. Ed ora è inutile piangere sul latte versato. Teniamoci le dure reprimende di Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, o quelle ancora più ruvide di Wolfgang Schäuble, potente ministro delle finanze tedesco. Comprendiamo, pertanto, la reazione di Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia ed il suo tentativo di minimizzare un confronto che – facile previsione – non si esaurirà troppo presto. Meno quelle del Presidente del Consiglio che, come al solito, rilancia: “Se Bundesbank pensa di farci paura forse ha sbagliato Paese. Sicuramente, ha sbagliato Governo”.

Quando si è seduti su una montagna di debiti, come nel caso italiano, fare la voce grossa sul piano internazionale, in genere, non conviene. Meglio cercare di convincere piuttosto che mostrare muscoli che non si hanno. E chiamare in causa responsabilità che sono diffuse. Se mezza Europa non cresce in modo soddisfacente, rendendo irrisolvibile il problema della finanza pubblica, questo si deve anche ad un avvitamento deflazionistico, che ha cause reali.

Paesi – come la Germania – che si chiudono a riccio all’insegna del vecchio principio del beggar my neighbour (tanto peggio per il mio vicino). Filosofia che fu tra le principali cause responsabili della grande crisi del 1929. Un euro, conseguenza inevitabile, fin troppo forte nei confronti delle altre monete. Che deprime le esportazioni, rallentando ulteriormente la crescita. Una politica monetaria che, a sua volta, non riesce a trasmettere, per gli stessi motivi, i suoi stimoli espansivi in modo uniforme. Ma determina un nuovo circolo vizioso tra Paesi forti e Paesi deboli dell’Eurozona.

A proposito di quest’ultimo argomento è preoccupante il tono usato dal “falco”  Hans-Werner Sinn, presidente dell’IFO (Institut für Wirtschaftsforschung), un centro studi tedesco, secondo il quale già oggi Mario Draghi agirebbe “al di fuori del suo mandato”. Un avvertimento esplicito: rivolto a bloccare ogni tentativo di pratiche non convenzionali, che rappresentano l’ultima spiaggia della BCE, prima di capitolare di fronte alla deflazione.

Se questo è lo scenario principale, poi ci sono le posizioni assunte da quei Paesi che gravitano intorno all’orbita tedesca, è facile prevedere che i prossimi mesi saranno di fuoco. E che la “migliore flessibilità” finanziaria possibile, tanto vagheggiata rischia solo di trasformarsi in un puro esercizio retorico. Conviene allora interrogarsi su come evitare che tutto deflagri. Partendo da un’onesta autocritica. Quegli 80 euro in busta paga, che hanno fatto la fortuna elettorale di Matteo Renzi, non sono stati un buon biglietto da visita per l’Europa. Abbiamo dato l’impressione che l’Italia vuol continuare come se nulla fosse. Tanto più che quei denari sono stati elargiti senza alcuna contropartita, in termini di maggiore impegno personale da parte dei beneficiari.

Dobbiamo correggere rapidamente questa impostazione. Considerare quei benefici come un anticipo sulle necessarie riforme: a partire da quelle relative al mercato del lavoro. Il Jobs Act, in discussione al Senato, deve essere approvato rapidamente. Soprattutto divenire immediatamente esecutivo, senza aspettare decreti legislativi di attuazione che avverranno a babbo morto. Quando lo spettro del possibile default finanziario diverrà un incubo collettivo. Al tempo stesso è necessario stringere con ogni mezzo il legame che deve intercorrere tra la dinamica salariale e la produttività. Mettendo fine all’illusione che basti “pompare” spesa pubblica, anche sotto forma di sgravio fiscale, per rimettere in moto l’economia. Sarebbe ripercorrere la strada fallimentare, seppure in forme e con modalità diverse, degli anni ’70 ed ’80.

Quindi intervenire sul fisco, privilegiando i fattori della produzione. Lo ha fatto la Spagna, riducendo il carico erariale sul lavoro e sulle imprese, ed i suoi migliori risultati macroeconomici stanno a dimostrare che questa è la via giusta da seguire. Fatto questo, ma solo dopo aver realizzato queste riforme, si può invocare una maggiore flessibilità. Correndo il rischio delle reprimende europee. Che lasciano il tempo che trovano, se i mercati mostrano di apprezzare le riforme avviate.

Poi vi sono gli altri interventi pro-market, a partire da quella della giustizia: la vera palla al piede dell’economia italiana. Il suo sfascio elemina ogni certezza del diritto. I tempi biblici delle sentenze scoraggiano dall’investire. Respingono alle frontiere qualsiasi iniziativa. Altro che “capitani coraggiosi”. Solo degli incoscienti possono pensare di creare, in Italia, nuovi posti di lavoro. E se manca il capitale estero, vista la completa interdipendenza dei mercati, viene meno ogni trasferimento tecnologico, che è il vettore essenziale della modernizzazione.

Su questi temi insistiamo da tempo, invocando una diversa agenda di governo. Ci ha accolto solo un assordante silenzio. Oggi il richiamo, seppure con un eccesso di brutalità, ci viene dall’Europa. Possiamo, ancora una volta, fare spallucce o rispondere con una iattanza senza fondamento. Ma così rischiamo solo di scavarci la fossa.