Socialize

ECOFIN. Su cosa punta il Governo italiano in Europa, al di là delle grandi evocazioni: crescita e sviluppo? Flessibilità in cambio di riforme. Ma l’unica pronta è quella del Senato, che non pesa nulla sui bilanci. Il vero problema è la crescente insostenibilità del debito. E il Fondo monetario internazionale minaccia…

 

 

matteo-renzi-europa-flag-728x470

Sembra di assistere alla partita della Spagna o dell’Italia ai mondiali di calcio: una ragnatela di passaggi a centro campo nella speranza di giungere ai tempi supplementari e poi ai rigori. In Brasile questa strategia si dimostrò fallimentare. Speriamo che in quel di Bruxelles vada meglio e che alla fine la sospirata “flessibilità”, al di là delle contrapposte retoriche, possa produrre qualcosa di buono. Incentivare le riforme – quelle vere – in cambio di un allentamento dei vincoli di bilancio. A partire da quelli di natura strutturale: la vera palla al piede della situazione italiana.

Del resto fu quella la strada sperimentata dalla Germania nel 2003, grazie alla lungimiranza di Gerard Schröder, e oggi i risultati di quella strategia sono sotto gli occhi di tutti. I successi, da allora conseguiti, hanno contribuito a costruire un vero e proprio paradigma che, oggi, condiziona la stessa giurisprudenza europea.

La speranza italiana è quella di rinviare la resa dei conti al 13 ottobre: data limite per la presentazione dei documenti programmatici da sottoporre al preventivo esame della Commissione europea e quindi dell’Ecofin, secondo le disposizioni del cosiddetto Two Pack. Nel frattempo la schermaglia continuerà, tra fautori e detrattori del binomio riforme-flessibilità. In campo, com’è noto, sono scesi personaggi del calibro di Schäuble, il ministro delle finanze tedesco, che ha ammonito a non tentare “scappatoie” o “pretesti” per aggirare le regole del Patto. Posizione subito avallata da Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, al quale il Ministro Pier Carlo Padoan ha risposto, con una punta di risentimento: “non è membro del governo tedesco”.

Su una linea analoga a quella tedesca, si era mosso, tuttavia, il presidente uscente dell’Eurogruppo, l’olandese Jeroen Dijsselbloem: “non bisogna parlare di riforme – aveva ammonito – ma occorre farle, ed è allora che si può avere più tempo”. Fermo restando che spetta alla Commissione europea valutarne il merito e giudicarne l’impatto sui singoli Paesi. E’ una linea condivisa?

A giudicare dall’intervista rilasciata da Roberto Gualtieri, esponente del PD di fresca nomina, quale Presidente della commissione Affari economici del Parlamento europeo, sembrerebbe di no. Alla domanda di Beda Romano, giornalista de Il Sole 24 Ore, sull’utilità degli accordi contrattuali – i cosiddetti Contractual agreement (riforme versus flessibilità) – la risposta è stata alquanto tiepida: “Penso che il concetto di uno scambio tra un rafforzamento del coordinamento delle politiche nazionali e …. le riforme, non richieda necessariamente un nuovo strumento ad hoc”. Insomma: massima indeterminatezza.

Su cosa punta il Governo italiano, al di là delle grandi evocazioni: crescita, sviluppo e via dicendo? L’impressione è che proponga da un lato un riferimento fin troppo generico a riforme di cui non sarà facile valutarne il relativo impatto. Quanto vale, in termini economici la riforma del Senato o quella della legge elettorale? Non esistono strumenti cognitivi in grado di misurarne, neppure in forma approssimata, l’eventuale portata. Dall’altro riproponga una qualche forma di golden rule: vale a dire escludere dal Patto di stabilità gli investimenti diretti oppure la quota di cofinanziamento nazionale per i fondi europei. In entrambi i casi un eventuale compromesso su questo terreno equivarrebbe ad un bicchiere mezzo pieno, che non risolverebbe, tuttavia, il problema di fondo: il disallineamento del deficit strutturale e la crescente insostenibilità del debito.

C’è da aggiungere che il clima internazionale sta cambiando. Ne fanno fede studi, finora riservati, del FMI ed in qualche modo anticipati in un recente articolo di Kenneth Rogoff, chief economist dello stesso Fondo. Il tema è appunto quello della sostenibilità del debito e del relativo fallimento delle politiche fin qui tentate per ridurlo. Problema non solo italiano, ma che in Italia presenta una drammaticità maggiore. In controluce si intravede la proposta di un restyling – hair cut (riduzione del valore nominale a danno dei possessori di titoli), allungamento delle scadenze, imposte patrimoniali – anche in vista dei prossimi stress test sulle banche che, com’è noto, ne sono i principali possessori. La tesi di fondo è che fare debito per sostenere gli investimenti può essere anche plausibile, ma devono essere investimenti indispensabili per favorire la crescita. Più facile a dirsi che a darne una compiuta dimostrazione.