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ECONOMIA. O si rifà o l’Europa ci sbrana. Caro Renzi, non hai voluto ascoltare noi, dai retta almeno agli osservatori di sinistra che chiedono riforme del lavoro e del fisco.

 

UE

I venti di guerra che insanguinano i confini dell’Europa – dall’Ucraina al Medio Oriente – devono far riflettere. Quei fatti si innestano su un tessuto economico e sociale già lacerato da una crisi che dura da troppo tempo e che si è riusciti in qualche modo a governare solo grazie alla grande liquidità finanziaria immessa nei circuiti dell’economia. Da tempo immemorabile non si assisteva a tassi d’interesse così ridotti, che si sono dimostrati, tuttavia, incapaci di far muro nei confronti del dilagare di una disoccupazione che ha, da tempo, superato il livello di guardia.

Quella finestra, inoltre, rischia di chiudersi da un momento all’altro, se la FED americana, come annunciato, procederà lungo l’exit strategy. Vale a dire riducendo progressivamente la quantità di moneta, il cui primo effetto sarà un aumento dei tassi di interesse.

Non ci si illuda che il fenomeno possa essere limitato al di là dell’Atlantico. Innanzitutto perché seguiranno a ruota sia la Banca d’Inghilterra e quella giapponese, per poi contagiare l’intera Eurozona. Lo stesso Mario Draghi, di fronte ad un cambiamento repentino dello scenario monetario internazionale, troverà all’interno della BCE resistenze maggiori. E non solo da parte della Bundesbank. E’ la consapevolezza di questi possibili pericoli – sempre nella speranza di poter poi tirare un sospiro di sollievo – che deve guidare la politica italiana: sia sul piano europeo, sia su quello interno.

Il semestre di presidenza italiana, purtroppo, non è partito con il piede giusto. Sul tema della flessibilità, per eccesso di ortodossia da parte dei principali partner, al di là delle parole di convenienza, si è stretto poco. Sulla nomina di Federica Mogherini, ancor meno. Le opposizioni a quella proposta sono state, in larga misura, strumentali. Hanno tuttavia raggiunto il bersaglio e di questa sconfitta occorrerà tener conto. Suggeriamo grande duttilità: requisito indispensabile in ogni trattativa internazionale, soprattutto europea. Tanto più che i contrasti, a causa degli avvenimenti ucraini, sono reali. Risolvibili solo all’interno di una complessa strategia incentrata su una realistica valutazione del rischio sistemico – l’intreccio tra politica ed economia – che attanaglia l’intera Europa.

Sul fronte interno, invece, è necessario accelerare. Che la pur giusta attenzione sulle riforme istituzionali non ci distolga dai problemi primari, che sono legati all’evolversi della situazione economica, sulla quale impatterà inevitabilmente e rapidamente l’eventuale peggioramento del clima politico internazionale. Nei mesi passati abbiamo insistito a lungo su questa priorità. Predicatori nel deserto. C’è voluto del tempo, ma alla fine gutta cavat lapidem. E da qualche giorno assistiamo, con un pizzico di soddisfazione, al fatto che quei temi si stanno imponendo.

A scendere in campo sono, ora, i grandi editorialisti: da Panebianco a Galli della Loggia. Non avevamo dubbi. Più sorprendente, invece, è l’allargarsi del cerchio ad esponenti della sinistra. Non ci meraviglia Luca Ricolfi, da sempre attento osservatore delle cose italiane, ma gli editoriali dell’Espresso e lo stesso Eugenio Scalfari, sulla portaerei di De Benedetti.

Il sasso lanciato nello stagno ha, quindi, fatto il suo onesto mestiere. Il che ci spinge ad insistere. Chiusa la parentesi politica, è soprattutto al Jobs Act che occorre pensare, in vista della manovra d’autunno. Se dobbiamo rischiare qualcosa, nel passare sotto le forche caudine della Commissione europea, il viatico per non restare con un pugno di mosche è riorganizzare il mercato del lavoro, ponendo fine alla grande “anomalia” italiana.

 

Quei meccanismi di protezione che, nel corso degli anni, hanno subito, come molte altre cose del ‘900, l’eterogenesi dei fini. Vecchi istituti, nati per difendere i lavoratori, si sono progressivamente trasformati in isole di privilegio, che hanno gettato sabbia negli ingranaggi dell’economia ritardando ogni adattamento delle sue strutture all’evolversi della realtà interna ed internazionale.

Concordiamo interamente con Maurizio Ferrera, nel suo editoriale sul Corriere della Sera. L’approvazione dell’articolo 4 della delega, che prevede la drastica semplificazione del codice del lavoro “rendendolo finalmente certo e comprensibile” nonché le modifiche del vecchio articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, rappresenta una sorta di giudizio di Dio, su cui si misurerà – sono sempre parole di Ferrera – la stessa “credibilità” di Matteo Renzi.

Noi siamo della partita. E faremo il possibile affinché quella norma possa essere approvata. Non solo perché la riteniamo giusta. Ma per far finalmente uscire allo scoperto vecchie posizioni conservatrici, travestite nei panni della tradizione post-comunista o nel neofitismo dei grillini.