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ECONOMIA. La Germania frena. Diminuiscono le esportazioni e non aumentano i consumi interni. O Berlino si decide a spendere, e l’Europa usa gli strumenti per svalutare l’euro di almeno il 20%, o esplode tutto il sistema. Consigli a Renzi per Bruxelles

 
Germania
I dati della Bundesbank di ieri sulla produzione industriale tedesca, sugli ordinativi e sulla crescita chiedono di fermarsi a riflettere. La causa del rallentamento dell’economia tedesca è, infatti, nel crollo della domanda estera, che solo un parallelo aumento della domanda interna può compensare.

E’ disponibile, la Germania, a farlo? Il dogma del rapporto deficit/Pil che in quel paese è intorno allo zero certamente non aiuta. Ed è il Fondo Monetario Internazionale il primo a lanciare la sfida: il governo tedesco aumenti la spesa, specie quella relativa agli investimenti pubblici, di mezzo punto di Pil, pari a circa 14 miliardi di euro all’anno. Gli effetti si vedranno a cascata sull’intera area dell’euro.

Ma si potrebbe andare anche ben oltre lo 0,5%. Se la Germania vuole tornare a essere la locomotiva d’Europa è questo che deve fare: reflazionare, vale a dire aumentare la domanda interna, quindi i consumi, gli investimenti, i salari, le importazioni e, di conseguenza, la crescita.

In Germania e negli altri paesi. Una grande riforma fiscale tedesca che vada in questo senso, accompagnata da altrettante riforme strutturali in tutti gli Stati dell’Unione. Se a ciò aggiungiamo che la Banca Centrale Europea accompagna la reflazione e le riforme sincronizzate nei paesi dell’area euro utilizzando al massimo gli strumenti di politica monetaria previsti dal suo Statuto, fino al Quantitative easing all’europea, si arriverebbe al deprezzamento dell’euro di almeno il 20%, e l’intera eurozona riacquisterebbe competitività.

La Germania ha già ricevuto una segnalazione dalla Commissione europea con cui si chiede di ridurre l’eccessivo surplus della bilancia dei pagamenti (netta prevalenza delle esportazioni sulle importazioni).

Ieri sul tema si è espresso anche il Fondo Monetario Internazionale (ma non è la prima volta). Le pressioni da parte degli Stati Uniti in tal senso sono frequenti. I dati della Bundesbank, se letti bene, sono l’ennesima conferma. Non resta che tradurre le analisi in azione.