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RENZI. Il suo nuovismo si scontra con il corporativismo

 

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Stiamo di nuovo scivolando verso gli anni ‘70? Anni funesti e non solo per l’insorgere del terrorismo, ma perché fu in quel periodo che si gettarono le basi del grande disastro finanziario italiano. Nel decennio successivo fu il mutamento della politica monetaria della FED, decisa da Paul Volcker, a fare il resto. I tassi di interesse, che in precedenza erano negativi in termini reali, divennero positivi. E lo stock di debito pubblico accumulato, per la sola componente “spesa per interessi”, oltre per la permanenza dei meccanismi di indicizzazione precedentemente decisi, lievitò come un soufflé.

Gli indizi ci sono tutti. Il bonus degli 80 euro elargito senza alcuna contropartita in termini di produttività e maggior impegno lavorativo. Il prepensionamento deciso per alcune categorie di dipendenti pubblici. E solo per quelli. Il tetto imposto, senza alcuna ulteriore distinzione, a dirigenti e manager pubblici. Come se il capo della polizia svolgesse un ruolo analogo al dirigente incaricato delle onorificenze a Palazzo Chigi.  Ed ora il duro scontro sindacale all’interno di Alitalia, con i piloti, confluiti nell’UIL, che non accettano decurtazioni salariali, forti della loro professionalità e della possibilità di lavorare altrove, con una retribuzione ancor più elevata.

Si dice, in genere, che tre indizi costituiscono una prova. Quella di una filosofia che nega in radice il principio della produttività come elemento di garanzia e di progresso per la determinazione dei livelli salariali. Se di notte tutti i gatti sono bigi, se è la politica o l’amministrazione a sostituirsi al libero mercato; se succede tutto questo perché affannarsi, perché cercare di produrre meglio e di più? Matteo Renzi – dobbiamo riconoscerlo – è l’artefice ed il profeta di questa nuova filosofia. Quando afferma che “che la crescita dello 0,4 o 0,8 o 1,5 per cento non cambia niente dal punto di vista della vita quotidiana delle persone” teorizza, appunto, il piattume degli anni ‘70.

Senza rendersi conto che così si nega il “merito” che è il presupposto per “combattere le vecchie e nuove povertà”, come si sostenne, purtroppo tardivamente, negli anni successivi.

E’ una teoria sostenibile? Riteniamo di no e non solo perché rappresenta una terribile “anomalia” rispetto alle regole generali che dominano la storia contemporanea. Ma perché alla fine i conti Renzi dovrà farli. E, purtroppo per noi, saranno dolori.